Ken LoachIn questo mondo libero (It’s A Free World ) di Ken Loach va giù duro come un macigno. A essere messo in discussione non sono tanto categorie sistemiche come “potere” o “neo-liberismo”, bensì gli individui, in ultima analisi noi stessi, inchiodati ciascuno di fronte alle proprie responsabilità, tacitamente conniventi alla sopraffazione e ai meccanismi dello sfruttamento. Aprendo a caso un quotidiano, qualche giorno fa, leggevo che: il governo australiano sta costruendo una Guantanamo High Tech per immigrati su un isolotto in mezzo all’oceano, dove i detenuti saranno tagliati fuori dal mondo; ancora, in una città del nord Italia 140 persone, profughi di guerre e povertà, sono state sgomberate da un'ex-fabbrica per far posto a un centro commerciale; infine, in alcuni nostri comuni, guidati da civili amministrazioni di sinistra, si teorizza la “tolleranza zero” nei confronti dei pericolosi lavavetri che attentano le nostre rinfrancanti soste ai semafori, dei giovani writers che hanno la sfacciataggine di colorare le mura grigio-smog delle città, dei “senza fissa dimora” che ne abitano gli insalubri spazi interstiziali.

Una domanda pressante per un'etica politica della responsabilità individuale è incombente nell’ultimo film di Loach. Il terzo mondo si è trasferito nella periferia londinese, tra campi di roulotte dove abita la mano d'opera straniera più o meno clandestina, carne da macello e motore dell'economia neo-liberista. Ma qui, diversamente che in casi precedenti nella sua filmografia, l'attenzione di Loach si sposta, dal punto di vista del lavoratore immigrato, precario e sfruttato, a quello dei suoi sfruttatori. E' questo slittamento di prospettiva la vera forza del film. Al centro della vicenda è Angie, giovane madre single, impiegata in un'agenzia di lavoro interinale che, dopo essersi fatta licenziare per non aver assecondato i pruriti sessuali dei suoi capi, decide di sfruttare l'esperienza professionale e i contatti che si era procurata, per tirare su un'agenzia tutta sua, iniziando quasi in semiclandestinità per non pagare tasse e licenze.

Nuovo caporalato legalizzato a tutti gli effetti, questi centri di lavoro temporaneo, anello intermedio della catena dello sfruttamento, svolgono una funzione vitale per i datori di lavoro: selezionano le "risorse umane" in base al grado di flessibilità che il lavoratore può assicurare; svolgono un primo filtraggio per tenere lontani dall'azienda gli individui potenzialmente scomodi, evitando il rischio di pretese rivendicative e sindacalizzazione. Angie è una tosta quanto basta per poter gestire l'arruolamento di centinaia di lavoratori immigrati, smistandoli e indirizzandoli quotidianamente alle rispettive destinazioni. Decide chi lavora e chi no, riesce ad arginare il malcontento degli operai quando deve comunicare un ritardo nella consegna delle paghe, arriva persino a subaffittare alloggi in cui ciascun letto è utilizzato a turno da più lavoratori ("così lo trovano caldo").

Loach evita di marcare i suoi personaggi con un giudizio senza appello, presentandoci figure sfaccettate che alternano alla mancanza di scrupoli, gesti di un'inaspettata generosità. Una schizofrenia morale in cui sembrano celarsi gli ultimi baluardi di resistenza di un'umanità offuscati sotto la coltre della logica del libero mercato. Loach sembra affermare che non esistano facili scorciatoie e che ciascuno di noi debba trovare dentro di sè la forza morale di opporsi quotidianamente, nel pubblico come nel privato, all'edificazione di una nuova società di schiavi e di padroni.

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