Un film cervellotico, a tratti sconcertante, Synecdoche, New York. Necessitante, per voce di autorevole critico, di una buona dose di abbandono al flusso pulsionale sempre improbo da rendere visivamente, o se si vuole di una preponderante dose di sospensione del giudizio e dell’incredulità, da tanto esso film svaria e imbalordisce, talvolta irritannoia. Il titolo gioca, dalla iniziale sonora sequenza di bimba USA salmodiante, tra Schenectady, New York – in cui è ambientata la vicenda – e la sineddoche figura retorica che regge la trama, in una soggettiva ma totalizzante fuga continua verso epifanie e decostruzioni di pulsioni, fobie, nevrosi con valore proposto universale-occidentale (viste sempre si badi dalla lente intellettuale ebraico newyorkese, nutrita di cultura, sofisticazione e fantasia non meno che di psicotraumi).

ll buon Charlie, già sceneggiatore di Jonze e Gondry (epici poetici cantori dell’assurdo fantastiquotidiano) qui si fa regista, autore di soggetto e sceneggiatura e co-produttore di se stesso, affidando lo spettatore alla fragilità di Caden, nevrotico sofferente femmineo iperipocondriaco regista teatrale il quale, non pago di premi per la resa sul palco di Miller e di rimando Pinter, profeti di moderna incomunicabilità, decide (del tutto irrealisticamente) di ridurre-amplificare in scala 1:1:centomila:milionidimilioni la vita metropolitana e in essenza i rapporti uomo-donna-arte-sè-altrodasè-ruoli sociali e familiari, così, tout simplement.

In concorso a Cannes 61mo, il film esce in Italia 6 anni dopo gli States, probabile postumo omaggio al grandissimo P.S. Hoffman, che illumina ogni e ciascuna inquadratura con la sua distaccata attonita minimale recitazione, alla ricerca di sé non meno che del senso della vita o della morte in essa implicata, se non (giorno per giorno) contenuta. ll contenente in primo luogo, dunque: non riuscendo ad accettare lo spazio ristretto, circoscritto, teatrale come agone in cui muoversi e tentare di comprender(s)e, Caden sceglie nel cuore di NYCity un hangar sconfinato per dirigibili, che via via si fa teatro; di ulteriori in esso inscritti, racchiudenti vie, palazzi, persone (etimologiche maschere) viventi che interpretano sempre più sé stesse, a ricalco del reale, presunto vissuto; e mentre si specifica a livello di formica, insieme esso hangar si dilata fino a contenere grattacieli, dirigibili che su di essi si librano, alla fine aeroplani che nei cieli sottoposti volano.

La ricerca della vita reale infinitesimale e la sua resa dialogica quotidiana arriva a produrre aberrazioni degne del più folle schizofrenico, come quando lo spettatore contempla ormai stordito sullo schermo teatrale (cinematografico) le battute pronunciate dal personaggio-Cotard regista, interpretato da un alter ego – successivo al primo già defunto – diretto dal tavolo di regia da un altro sé-regista Cotard (donna, tra l’altro, la sensibile Dianne Wiest), con accanto il vero Cotard perplesso spettatore della vicenda da lui vissuta eppoi scritta eppoi diretta eppoi testimoniata(!?), ormai in troppi specchi concentrici riflessa.In un simile disturbante racconto fantastico a parte subiecti e delirio allucinatorio quotidiano, anche prima e fuori dell’hangar-vita che tutto e tutti comprende e replica (tramite il tavolo dei pizzini che si stendono senza fine apparente davanti a Caden, ben oltre la combinatoria esistenziale di Perec), le relazioni del protagonista con la moglie, la figlia, la seconda compagna e figlia, le donne strane che appaiono e lo per-seguono in percorsi psicoanalitici o pseudoamorosi sono improntate alla fuga, al rigetto, al sofferente confronto con l’altro, che salomonicamente Adele (Lack, come mancanza) riassume nella frase: “Ognuno delude, quando lo conosci bene”.

Non sappiamo dunque per certo se quello che ci restituisce la delirante percezione di Cotard sia proiezione di suoi desideri inconfessati o frustrante pressione del reale sui suoi sensi esausti schiacciati dalla paura della morte. Non sappiamo se i piedi della sua bionda analista bestsellerwriter trainer autogenista siano davvero così; inquietanti a piano primo, come le tumefazioni a piano medio delle stesse dita e della caviglia soffocate dai laccetti dei neri stiletto. Né se e come i fiori tatuati sul corpo (già undicenne) della figlia resa berlinese possano sfiorire e annerire fino a fisicamente distaccarsi dal braccio stanco, nella più inesplicabile terribile scena del film, che va ben oltre gli insulti e schiaffi che Zeno condivide con il morente padre secondo Schmitz. Sappiamo che non sono reali le fiamme e il fumo che avvolgono la casa della ammiratrice-receptionist-cassiera-semiamante-assistentediregia Hazel, ma ci abituiamo ad esse e quasi ci paiono congeniali e naturali ai personaggi, spiegabili metafore della difficoltà di capire, comunicare, condividere concetti e soprattutto affetti senza tossire, lacrimare, sudare, soffrire di vita incerta tesa verso malamorte certa. Notevole tuttavia il primo ingresso di Hazel nella casa caliginosa scoppiettante con la garrula agente immobiliare, che può confondersi sulle prime per graffiante satira della professione più subdola e squalificata forsesistente, il real estate agent che intende vender/affittare una confortevole villetta con stanze soffocate dal fumo, lingue di fiamma che occhieggiano dalle porte e dai buchi di tappezzeria: arredata nonché esplicitamente ‘corredata’ del seminudo Derek figliolo, che vive nello scantinato dalla separazione legale della madre.Dirà ovviamente Hazel:”Mi piace, la prendo!” E nella stessa nebbiosa surriscaldata atmosfera ella vivrà, tenterà e porterà a termine la seduzione di Caden, sposerà il disarmante Derek, che le darà ben 3 (tre) gemelli. Anche i più consacrati scenari familiari vengono compromessi e deformati in rapporti madre-figlia-lesbomentoressa di strana natura, mentre la plurigemellarità fa da ulteriore richiamo a tanti esseri in tutto simili in apparenza, orrendi gli abiti, tranquille le abitudini, che forse come tanti (apparentemente diversi) non riusciranno mai del tutto a scoprire chi loro stessi sono, chi siano gli altri intorno. Anche il misterioso inaffrontabile archetipo del suicida viene alfine rappresentato, nella persona del follower silenzioso e sorridente Tom, che si getta dal palazzo come Caden non poté fare perché a forza trattenuto, sfondando l’equivalente scenografico di un comune marciapiede, da esso stesso indistinguibile prima dello schianto. Caden di ciò si rammarica e rimprovera al defunto l’infedeltà anche professionale alla vita-sceneggiatura. Poi si ritira, come sempre, perplesso. Non ci si trova più nelle rigorose quanto inquietanti scenografie finte di Dogville, legnose o gessose bidimensionali quinte che scandiscono lo sviluppo drammaturgico innocenza-distruzione.

Nella metropoli in costruzione progressiva sineddotica non appaiano gli stralunati ambigui personaggi di von Trier, né le delicate disarmanti Gelsomine, niente orridi burberi Wolfgangheri o Zampanò: solo (repliche di) noi stessi, abbandonati alla vita che tutti i giorni molto dà e molto toglie, alla conoscenza di noi e degli altri. I personaggi di contorno si moltiplicano rapidi, prima di sterminarsi presumibilmente a vicenda, in un finale ove la morte tutto abbraccia e restituisce dal caos pulizia senza macchia, senza memoria e senza il dolore dell’incomprensione in rapporti umani decaduti e macchiati come i lavandini, i piastrellati e le superfici men che immacolate che ossessionano il protagonista. Caden si trascina attraverso le scatole concentriche-ma-identiche degli hangar-magazzino di posa, sempre più piccoli secondo programma e senso comune, in realtà espansi quanto (e oltre) il reale, per abbandonarsi e morire sulla spalla di un suo personaggio, sotto le istruzioni di scena che il(la) suo/a alter(a) ego gli fornisce, in presa diretta auricolare: FINE.

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