Descrivere un personaggio così denso e connotato con la storia e con la storia del cinema come Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e ritagliarne un cameo piegato sapientemente alla propria ossessione (anche riverenza) stilistica non poteva che essere prerogativa di uno dei più irriverenti creatori e montatori di immagini, Peter Greenaway. Ma questa volta, forse, l’artista gallese, e diversamente dal passato, vuole raccontarci una storia -seppure a suo modo. Siamo nei primi anni ’30, in quel Messico ricco di suggestioni e fervido di cultura (Frida Kahlo, Diego Rivera, Tina Modotti, André Breton) che anticipa la rivoluzione russa di sette anni. Ėjzenštejn è ai vertici della sua carriera artistica e decide di girare Que Viva Mexico! per onorare la revolutiòn.

E invece viene folgorato dall’incontro con l’amore per la prima volta nella sua vita (a ben trentatre anni) e con la scoperta del proprio corpo e della sessualità attraverso il corpo di un altro in una iniziazione erotica che mescola carne, cultura e politica in una rivoluzione  molto personale (laddove per un personaggio scomodo nonché, almeno per desiderio sessuale, appartenente a una minoranza il personale è sempre anche politico). Il film inizia adrenalinico, dall’andatura scattante e piglio logorroico di Ėjzenštejn(Elmer Back) appena arrivato a Guanajuato, parla un piacevole inglese con accento russo, completamente di bianco vestito (il bianco attrae, staglia la figura sullo sfondo, suggerisce castità ma si presta anche a sporcarsi facilmente) bretelle rosse e calzoni alla caviglia (un dono di Chaplin dice orgoglioso), scarpe volutamente simboliche, scarpe di pelle nera lucidate da dignitosissimi sciuscià messicani, la scena e le inquadrature vertiginose magnificamente dirette in un bianco e nero polarizzato-da-mozzafiato e poi colore sapientemente accostato, mescolato insieme in quel barrocchismo perfetto e rigoroso che si diluisce con le umane tonalità o contrasta netto nei luce e ombra messicani.

Svolazzante Greenaway, mai pesante, divertente a volte, ti prende per mano e ti porta senza colpi bassi, nella superficie della visione, non affonda se non con acquazzoni improvvisi emozionali e rovesci di vomito (rifiutare una condizione, una situazione che si è fatta ingombrante, fare spazio al nuovo, prepararsi a ricevere) sulle scarpe appena lucidate,questa volta vuole davvero raccontare una storia , pare. Una storia di doppi, di sovrapposizioni (non solo carnali) per cercare di unire una realtà frammentata, incongruente, dilatata, tra passione e intelletto, eros e thanatos diversa a seconda della parte in cui decidi di stare ma allo stesso tempo ugualmente meritevole d’esistere. Un tripudio di montaggio in onore al suo creatore, di split screens tanto cari all’arte contemporanea che Greenaway padroneggia con la disinvoltura di sempre. Volti e corpi, espressività, scena e costumi ricercati che calzano perfetti come una nudità sempre presente, mai volgare, disinibita.

La sua personale rivoluzione Ėjzenštejn-Einstein (stessa acconciatura sarà un caso?) la fa innamorandosi per la prima volta e regalando la sua verginità  all’affascinante Palomino Cañedo(“all’esperienza messicana” rispetto alla Russia?) l’antropologo che lo guida nella sua prima esplorazione erotica. La scena è sublime costruita magistralmente accanto a un letto enorme, pavimento come una scacchiera di una pagina enigmistica, I corpi nudi apprezzabili nella loro diversità, in piedi. Dialoghi che smorzano la tensione dell’imminenza dell’amplesso e gesti lenti di preparazione mentre con naturalezza l’olio versato sulla schiena dell’iniziato scivola sensualmente seguendo le curve del corpo, a rassicurare quella meta inevitabile che è la giuntura dei due lombi. Il congiungimento è una sovrapposizione-unione anche simbolica, sì di due corpi ma anche di due soggetti-nazioni accomunate dallo stesso desiderio ed esperienza di rivoluzione, una vittoria parallela ironizzata da una bandierina rossa appoggiata tra le natiche. Ed è in questa ottica forse che rivoluzione ed eros possono trovare un comune denominatore che è la passione, l’impulso alla creazione, che nasce dal piacere di agire per un piacere comune, per sconfiggere un’ingiustizia (anche quella della privazione del piacere corporeo) che è arrivata al colmo, pur, anzi meglio, esponendosi al pericolo di morte (anche petit mort).

E della morte e della sua deflorazione, del suo passare oltre-attraverso anche di senso,   ancora meglio Greenaway ci mostra nelle scene in cui fa danzare-sfidare i due uomini ero(t)icamente con degli scheletri o della bellissima scena della telefonata in cui Ėjzenštejn con un teschio in mano ridicolizzato (come da tradizione messicana), nudo sotto una doccia scrosciante di emozioni, racconta entusiasta alla sua assistente di essersi innamorato così tanto da non voler ritornare in Russia e soprattutto da non riuscire a creare, perché “la creazione nasce solo dalla frustrazione”, mentre l’amore rende appagati, pieni, senza difese.

Poi appoggia il teschio beffardo sul telefono e intona un inno alla vita da brivido:

La morte dovrebbe essere sempre pronta a ricevere una chiamata“. Revolution!

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3 commenti su “Eisenstein in Messico

  1. cromatismi arditi, lucide immagini, vibranti magniloquenti movimenti del personaggio bianco sporchevole nordico pieno di ombre e insicurezze verso universo ispanico pieno di luce e calore vitale sessuale, non solo politicamente rivoluzionario. Tra metafore scatologiche e proclami arditi, allo svagato giro di totentanz con la santa muerte, un grand.mo Greenaway ritornato ai fasti visuali di ComptonHouse (pur senza la emozionante rigorosa musica di MNy), dopo gli stancanti barocchismi di TulseLuper e Grotius. Altro che pablosorrentino. Gloria a Palomino!

  2. anche se Romeo e giulietta di Prokof’ev e l’uso fin troppo didascalico per film, è sempre una secchiata in faccia di gelida potente perfezione (russa)

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