I pezzi che danno il titolo al documentario di Luca Ferrari, vincitore del festival di Roma 2012 nella categoria Prospettive Italia (e da allora ancora in cerca di una visibilità degna del suo valore. Ho avuto la fortuna di vederlo qualche giorno fa a Napoli all’ex Asilo Filangieri), si riferiscono certamente all’unità di misura più usata nel quartiere Laurentino 38, degradata periferia romana di palazzoni eretti in mezzo al nulla e tanto asfalto lungo il quale viaggia veloce e si consuma la droga, unico vero collante sociale ed economico. Ma i pezzi sono anche, innanzitutto, gli scampoli di vite che lo sguardo di Ferrari, esordiente nel video dopo tanta esperienza (e premi) come fotografo, raccoglie, andando in giro con la sua camera tra gli abitanti del quartiere, e quindi dispone sotto i nostri occhi, volontariamente «alla rinfusa», frame di una realtà schizzata e selvaggia. A noi, montatori finali, il compito dunque di metterli insieme, di rinvenire nel magma una struttura.

La sequenza d’apertura è una dichiarazione d’intenti: Massimo, detto Er Pantera, il cicerone del quartiere nonché personaggio centrale del documentario, tira su una striscia e poi, sempre in favore di camera, inneggia alla polvere bianca come star del film e della sua vita. Più avanti vedremo quest’uomo inquietante (quasi sempre «fatto», la mano destra misteriosamente guantata, i racconti incessanti di un passato di carcere e rapine) esibirsi ancora in simili performance, la vetta delle quali sarà la dotta catalogazione dei vari tipi di cocaina disponibili sul mercato («a spina di pesce, mandorlata, al cherosene, al piscio de gatto…»). Dentro la bisca che Massimo gestisce, o appena fuori, sulla strada e nelle case del quartiere, si muovono, tra gli altri, la sua compagna, Bianca, vedova di un uomo ucciso anni prima in una sparatoria; Giuliana, nove anni di carcere alle spalle e il trauma insuperabile del figlio, piccolo spacciatore, morto in un incidente stradale; il ventinovenne Stefano, tossico da quando ne aveva tredici, ai domiciliari dopo dieci anni a Rebibbia, con la madre Rosy malata di cancro; il ventenne Massimiliano, che ostenta tatuaggi nazisti.

Tossici, pusher, rapinatori, ex detenuti, omicidi: un’umanità disperata, in corsa accelerata verso l’autodistruzione. Materiale estremo, rispetto al quale Ferrari sceglie la posizione più pericolosa, ma anche l’unica che gli permette di non subire la fascinazione o suggerire la mitizzazione di questa marginalità violenta, e al contempo di non frapporre alcun filtro, alcun giudizio «dall’alto»: la sua sfida è di stare sempre dentro il film. Quindi, immagine in perenne movimento, audio sporco al limite della comprensione, nessun igienico distanziamento.

Solo, il film si concede alcuni brevi momenti di raccordo, anticipati da prolungate dissolvenze a nero, nei quali Ferrari fa valere la qualità pittorica del suo substrato fotografico, contempla da lontano e a pieni occhi il disegno urbano del quartiere, la sua apparente quiete notturna – e la camera sembra rilassare i muscoli. Ma è un’illusione, perché quei «neri» altro non sono che abissi in cui il film ci getta sempre più profondamente, come in un incubo, nel quale si è condotti dentro una realtà di cui si riconoscono i contorni, ma non le leggi che la regolano né i personaggi che la popolano. Più che al «fatale» Sacro Gra (di cui questo film potrebbe al limite essere un’anima nera e maledetta) viene piuttosto da pensare alle opere notturne e malate di Abel Ferrara o addirittura al Lynch più schiettamente noir, tale è la forza visiva e la densità onirica dell’immagine di Pezzi.

Non solo lo sguardo di Ferrari, anche il corpo è sempre dentro. Due anni di lavoro in totale, mesi di conoscenza e ambientamento in un microcosmo in partenza sconosciuto, gli hanno permesso di portare la camera sin dentro la bisca del Pantera, inizialmente con l’idea di un’inchiesta fotografica, che poi si è tramutata in documentario. Lo vuoi fare perché sei uno sbirroLo vuoi fare perché vuoi farti i soldi… ma chi te lo fa fare?!, così il regista ha ricostruito le tre fasi della diffidenza, e del suo progressivo superamento, incontrati presso gli intervistati. Il risultato, sullo schermo, è un’impressione di familiarità fortissima tra l’autore e i suoi protagonisti, una confidenza senza la quale nulla di ciò che si vede sarebbe stato possibile. Ferrari ricerca e ottiene la fiducia del Pantera, di Bianca e degli altri sulla base di una relazione umana, condividendo le situazioni fino al punto di spegnere la camera quando necessario per diventare uno di loro. Si mette in gioco in prima persona. In questo modo trasforma progressivamente lo strumento di ripresa da testimone privilegiato della realtà a imprevisto «confessionale» a cui dire forse più di quanto si rivela a se stessi, su cui i suoi attori imprimono la propria intimità persino oltre la contingenza.

Così, in un crescendo perturbante di avvicinamento/inserimento, Ferrari arriva alla sconvolgente sequenza finale, in cui si ritrova nel mezzo di un litigio feroce e disturbante tra Massimo e Bianca, lunghi minuti di minacce che sembrano più volte sul punto di degenerare, durante i quali è chiamato lui stesso in causa: e allora si sente la sua voce da dietro la camera che implora Massimo di calmarsi, per la prima volta il regista è ufficialmente personaggio. Lì forse Ferrari si rende conto di essersi spinto troppo dentro, troppo vicino, e chiude quasi bruscamente un film che una fine narrativa non ce l’ha, ma forse è giusto così, perché una fine non può avercela, ed anzi certamente, che una camera sia lì a filmare oppure no, il film sta continuando proprio ora.

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