Si dovrà tornare a giochi fatti sulla compagine massiccia e disomogenea che il cinema indie americano ha schierato a questo TFF 2011. Per ora ci basta di essere stati folgorati da un lampo improvviso proveniente dal Mississippi che ha illuminato il festival torinese con una intensità simile a quella con cui Winter’s Bone attraversò la passata edizione. L’esplosione di cui parliamo l’ha provocata The Dynamiter, esordio nel lungometraggio di Matthew Gordon. A differenza del film dell’anno scorso di Debra Granik (passato poi in sala come Un gelido inverno), che alla fine vinse con merito il festival, The Dynamiter non è stato inserito nel concorso principale, bensì nel contenitore variegato e variopinto della collaterale Festa mobile, tra Balaguerò e Marco Bechis, Amalric e Woody Allen, Honoré e Rodrigo García. Un peccato per il palmarès, perché questo piccolo grande racconto di formazione è di gran lunga superiore a molti dei titoli in corsa per la vittoria finale.

La storia è quella di Robbie Hendrick e dell’estate dei suoi quattordici anni, probabilmente la più importante della sua vita. A Glen Allan, Mississippi, Robbie, taciturno, scontroso e con una buona predisposizione a menar le mani, vive con il fratellastro Fess, più piccolo, e la nonna Gimmel, muta e pressoché incapace di intendere. Tra furtarelli e un lavoro come tuttofare alla pompa di benzina, è lui a portare avanti la baracca, dal momento che la madre, di nuovo scappata di casa, si limita a inviare cartoline da chissà dove promettendo un ritorno, e suo padre non l’ha mai conosciuto. Come tutti gli adolescenti, Robbie confida e un po’ venera il fratello maggiore Lucas, un’ex promessa studentesca del football la cui carriera è stata stroncata da un infortunio. Ma presto capirà che dovrà fare tutto da solo.

Girato con pochi mezzi nei luoghi in cui è ambientato e interpretato da attori non professionisti, The Dynamiter è una storia emblematica di un’America marginale, dimenticata o del tutto ignorata. La realtà in cui si muovono i personaggi, a un passo dal Delta del Mississippi, è una realtà desolata e aspra, che non fa che respingerli, non propone loro alternative se non una vita priva di soddisfazioni, la piccola delinquenza o addirittura l’oblio. Tutto ciò, Matthew Gordon lo mette in scena senza prediche, campi lunghi “sociologici” o personaggi esemplari, ma concentrandosi anima e corpo sul suo protagonista. Scandito narrativamente dalle parole di Robbie (il bravissimo William Patrick Ruffin), la cui voce in off legge il tema estivo che gli è stato assegnato dal preside della scuola, visivamente il film si affida ai suoi occhi blu innocenti perché ci restituiscano il mondo. E ciò che il ragazzo vede non è solo l’aridità di una comunità inospitale, anzi. Significativamente, la pellicola si apre sull’incanto delle distese di campi coltivati che esplodono di colore in piena estate, i campi in cui i due fratelli giocano a rincorrersi, a fare la lotta, cuccioli d’uomo che scoprono la vita. Il movimento armonico dei corpi a contatto con la natura rimarrà lungo tutto il film una costante sorprendente, costituendo uno dei motivi del suo fascino.

The Dynamiter incanta proprio per l’equilibrio miracoloso tra la gravità della storia e questa levità dello sguardo dell’autore, che riesce ad essere lirico senza dare l’impressione di ricercare la poesia a tutti i costi. Il racconto coinvolge e spesso emoziona, ma l’asciuttezza e la dignità dell’approccio escludono facili intenti ricattatori. La bellezza delle immagini calde fotografate da Jeffrey Waldron (anche lui esordiente) non è mai fine a se stessa o estetizzante, Gordon sembra piuttosto volerci suggerire che pur in un ambiente deprimente il bello e quindi la speranza sono già in potenza, perché sono insiti nella natura – persino nella natura umana. La colonna sonora (di Casey Immoor), molto presente, spesso usata come unico commento in lunghe sequenze prive di dialogo, contribuisce a dare respiro a The Dynamiter, lo fa volare alto. Pur con tutte le prudenze del caso, non ci pare di commettere sacrilegio nello scomodare Terrence Malick come riferimento primo per l’approccio registico di Gordon.

Si diceva di Winter’s Bone. Oltre all’anima fieramente e sinceramente indipendente, ad accomunare i due film è soprattutto un puro spirito vitale e giovanile che anima i protagonisti di entrambi, nel senso di una forza, propria dell’età più acerba, di lanciarsi contro ostacoli che la maturità direbbe insormontabili. Robbie non è rissoso, è battagliero. Costretto a crescere prima del tempo, sente che la vita deve conquistarsela ogni giorno, contro un destino ostile che pare aver scelto per lui. Proprio come Ree, intraprende una lotta per la sopravvivenza, anzi per la tutela della specie, a difesa della propria famiglia. Senza accorgersene andrà ben oltre l’istinto di conservazione, verso i sentimenti.

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