di Giovannella Rendi/Diceva Tolstoj: “Racconta il tuo microcosmo e racconterai il mondo” e mai il cinema italiano è sembrato così fecondo come da quando ha rinunciato a qualsiasi pretesa di accattivante universalità delle  insulse  vicende da cucina e tinello per focalizzarsi sui volti consumati di attori (non) professionisti,  sul dialetto, sull’esotismo della provincia, meglio se meridionale, comunque la più lontana e dimenticata.  Luogo privilegiato di questa nuova fucina di creatività locale è senza dubbio la Campania, già esplorata dai cosiddetti “vesuviani” degli anni ’90 (Martone, Gaudino, Capuano e dal primo Pappi Corsicato), poi laboratorio di De Costanzo e Fabio Mollo, e al momento set del prossimo film dei Manetti Bros, che già vi avevano girato il divertente Song’e  Napule. E di Ozpetek, che speriamo non  lo faccia diventare un brand.
Rientra pienamente in questa nuova tendenza sia antropologica che geografica il sorprendente Indivisibili, opera terza di Edoardo De Angelis dopo due film molto apprezzati dalla critica, Perez, e  Mozzarella stories (però il titolo di quest ultimo, anche se autoparodistico, fa davvero passare la voglia di vederlo, diciamo la verità). Sensibile alle suggestioni della sua terra intesa sia come natura che come cultura, De Angelis ha il merito di racchiudere molti elementi diversi come la denuncia sociale del degrado di certe zone, la presenza endemica e inscalfibile della piccola e grande criminalità, l’influenza mefitica dei mass media sul proletariato e sottoproletariato, elevando però il tutto attraverso la lente di una sacralità arcaica, una mistica quasi pagana (e non siamo lontani dalle opere di Pietro Marcello), focalizzandosi sul  suo cortocircuito con l’istituzione religiosa ufficiale, tema peraltro già esplorato con grande delicatezza da Alice Rohrwacher in Corpo Celeste.
Al centro della pellicola, vero e proprio perno della vicenda attorno a cui ruotano tutti gli altri personaggi, sono due sorelle siamesi, attaccate l’una all’altra all’altezza della coscia, quindi prive di quella mostruosità di altri gemelli siamesi ben più sfortunati in quanto uniti alla testa o al busto, con organi interni in comune. Si chiamano Desy e Viola, sono belle, eleganti, proporzionate, quasi un semplice “doppio” che si tiene abbracciato da dietro come nella simbologia antica Castore e Polluce. Hanno anche una bella voce, quindi si esibiscono come cantanti neomelodiche di canzonette patetiche (la loro hit si chiama Drin drin e parla di amori al cellulare) a comunioni di bambini obesi, feste pacchiane di gangster di provincia, serenate prematrimoniali in mezzo a macerie di edifici. In un mondo che somiglia sinistramente ad un brutto reality show (vedi “Il boss delle cerimonie” su Real Time, dove la napoletanità è invece ostentata nel suo kitsch estremo e caricaturale come valore positivo della tradizione) il loro essere un “doppio”, una commistione di bellezza e mostruosità, le trasforma da semplici stelline canore in un’entità che appartiene alla dimensione non tanto della fama mediatica, quanto appunto della sacralità popolare, come quella degli storpi, verso cui il sottoproletariato prova un misto di soggezione e superstizione. Non a caso le persone cercano continuamente di toccarle, come moderne madonne, soprattutto nel punto misterioso della loro unione.   Esibite da una famiglia più disperata che cinica, in quanto sente la parziale necessità di costruirsi degli alibi nell’illusione di un benessere che sta già dilapidando, le gemelle cominciano a mettere in discussione il sistema in cui sono ormai irrimediabilmente incastrate. In particolare Desy, la gemella estroversa e testarda, apparentemente la personalità più forte delle due, con l’infatuazione per un impresario senza scrupoli che le promette l’amore e la fama. Comincia a sottrarsi ai ricatti con cui  tutto il loro piccolo entourage le ha sempre ingabbiate nella parte di due fenomeni da baraccone, e alle manipolazioni religiose (i presunti miracoli che compiono per la povera gente, in combutta con un losco sacerdote) e il sostegno economico a sé e alla famiglia.  Mentre Viola, più accondiscendente, mite e religiosa, non vede la necessità di separarsi dall’amata sorella e soprattutto di cambiare un sistema che sembra rendere felici tutti quelli che stanno loro intorno, nella misura in cui si può essere felici in un luogo disperato come il litorale di Castelvolturno,  in tutta la sua crudezza evocata sin dalla prima inquadratura, con  le prostitute che tornano a casa tra le carcasse di agnelli bruciati.
In tanta disperazione, unita all’angoscia della scelta da compiere (separarsi per le gemelle significa essere libere, ma sapranno vivere l’una senza l’altra? E l’una insieme all’altra come nella splendida scena nel mare di notte, in cui sono allo stesso tempo ancora e zavorra l’una dell’altra?), il regista ha il merito di non indulgere in alcun compiacimento, limitandosi a mostrare il degrado della spaventosa urbanizzazione locale con occhio entomologico e tratteggiando tutti i suoi personaggi, insieme con gli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Barbara Petronio, con grande umanità e rispetto, lasciando scorgere in ognuno di loro un barlume di umanità. Tra i genitori e le figlie, per quanto tutti tanto diversi tra loro, si percepisce comunque una forma di affetto, anche se logorato dalla brutalità dell’esistenza che li circonda,  e lo stesso impresario Marco Ferreri (sic!) sembra sinceramente attratto dal fascino di Viola, tanto da essere l’unico che la tratta come una persona autonoma,  senza mai rivolgere lo sguardo sulla sorella accanto a lei.
L’elemento grottesco è insito nell’anormalità dei due corpi congiunti ma il regista sin dalla prima immagine delle gemelle sembra dare per scontata la loro condizione e costringe lo spettatore ad affrontarla con un disagio sempre crescente, con uno sguardo che è allo stesso tempo distaccato e affettuoso verso gli esseri umani e impietoso e crudele verso la società che li costringe a farsi del male. E che i veri mostri non siano loro ce lo avevano insegnato già Ferreri,  Herzog e soprattutto Tod Browning, non a caso le protagoniste si chiamano come Daisy e Violet Hilton, due famose gemelle siamesi, che appaiono anche in Freaks (film esplicitamente omaggiato anche nella festa sulla nave dell’impresario, forse unico momento un po’ autocompiaciuto nell’esposizione del grottesco).
Indivisibili è un film ben girato, ben scritto, benissimo recitato, che non somiglia a nessun altro e lascia lo spettatore, anche il più navigato, con il fiato sospeso e incapace di prevedere lo svolgimento della vicenda, diversamente da quanto accade nella maggior parte della produzione nostrana. Se una pecca gli si deve trovare è forse la rappresentazione della chiesa cattolica, in un cinico prete che sembra più un camorrista, una figura cui forse avrebbe dato maggiore spessore un atteggiamento più mellifluo che violento. È un film sulla disperazione ma non disperato, e che instilla inquietudine ma senza mai giudicare.

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One thought on “Indivisibili di Edoardo De Angelis – perché sì

  1. caspita! una recensione magnifica! brava Giovannella, hai toccato tantissimi temi con con maestria e passione

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