Su un’immensa landa desolata che serve da cimitero ai vecchi autobus di Atene, un uomo si fa consegnare una pizza da un ragazzo in moto, poi entra in uno dei veicoli abbandonati per mangiare ma una pallottola, sparata con fredda precisione, fa centro nella lente destra dei suoi occhiali perforandogli il cranio. Senza alcuna emozione, l’assassino, con consumata professionalità, sale in macchina e si allontana.

Quasi senza parole, con una sensibilità rigorosa e raffinata per gli spazi aperti a vista d’occhio, per quelle vaste aree che si estendono ai margini dei grandi centri abitati, per i litorali abbandonati al vento dell’inverno, Yannis Economides c’invita ad entrare nell’universo di un malinconico film noir, sobrio, volutamente classico e genuinamente greco.

Stratos, un uomo sulla cinquantina, lo sguardo triste, il volto segnato e stanco, minuto e con le spalle cadenti, è un killer professinista. Il piccolo pesce – traduzione letterale del titolo originale del film – è lui. Il suo mandante chiamato “Pittore” gli affida degli incarichi che Stratos porta a termine con perizia: è affidabile, sicuro, puntuale. Mai una sbavatura, mai un errore. Il “Pittore” apprezza le sue qualità, lo paga in contanti e gli affida una missione dopo l’altra.

Le cose vanno avanti regolarmente e senza intoppi. Ma Stratos, che ha passato la maggior parte della sua vita in prigione per un crimine passionale commesso in gioventù, conduce una doppia vita; i suoi unici amici – Vicky, una seducente ragazza-madre che vive con la figlia Katerina di otto anni, il padre malato ed un fratello storpio che vivono nell’edificio di fronte al suo – pensano che si guadagni la vita lavorando di notte in un panificio industriale. Neanche Yorgos, fratello del boss Leonidas che ha salvato la vita a Stratos in prigione, è al corrente della sua vera attività e pensa che le grandi somme che l’uomo gli versa regolarmente per finanziare l’evasione di Leonidas, siano vinte al gioco. L’evasione dovrebbe avere luogo attraverso un enorme tunnel sotterraneo che Yorgos sta facendo scavare sotto l’edificio della prigione.

Mentre attende con impazienza il giorno fatidico, Stratos risponde alle continue domande di soldi di Yorgos che pena a portare a termine questo progetto faraonico. A parte questo c’è ormai ben poco nella vita solitaria di Stratos; l’unico raggio di sole nel suo cupo universo è costituito dalla piccola Katerina su cui l’uomo veglia come fosse sua figlia.

Nel frattempo Vicky, la madre della piccola, che deve un’ingente somma di denaro a Petropoulos, un potente boss locale, finisce per accettare di prostituirsi occasionalmente per saldare una parte del suo debito. Anche Stratos è entrato nel mirino di Petropulos, che vorrebbe convincerlo a diventare un suo uomo. Ma Stratos, invece, aspetta fedelmente l’evasione del suo capo. Inutile dire che le cose prenderanno tutt’altra piega. In seguito a una serie, ormai incontrollabile, di eventi, Stratos si troverà, per la prima volta nella vita, a dovere difendere dalla cupidigia e dalla perversione degli adulti che la circondano l’innocente Katerina, con un gesto estremo e fatale.

Stratos non è un film d’azione ma un film di genere che vuole rifarsi alla grande tradizione del film noir francese; a quello degli anni trenta e quaranta in primo luogo, ma anche e soprattutto a quello creato da uno dei suoi più grandi maestri: Jean Pierre Melville,  ha spiegato Economides alla stampa.

Il film può essere letto, a giusto titolo, come un omaggio all’universo di Melville, da cui riprende il trattamento degli spazi, il gusto spiccato per l’astrazione formale nella messa in scena degli interni, l’uso parco e misurato del dialogo e una struttura narrativa che inscrive la storia nella traiettoria esemplare – nel bene e nel male – di un’esistenza umana. In quest’ottica la vicenda raccontata è, in fin dei conti, lo spunto per una meditazione più ampia sul senso della vita e sul valore morale del comportamento umano. Fra interni laboriosamente costruiti ed esterni grandiosi campeggia, bigger than live, un eroe silenzioso, solitario, enigmatico, fedele al proprio codice d’onore e pronto a difenderlo, se necessario, con la sua stessa vita.

Yannis Economides riprende il modello dell’eroe melvilliano –Alain Delon in Il Samurai, ne è l’archetipo sublime – rivisitandolo e creando un anti-eroe del giorno d’oggi.

Stratos è un uomo di mezz’età, non è molto intelligente, è un uomo stanco, ai limiti della depressione, introverso, permaloso, disfunzionale, antipatico, oltre, ovviamente, ad essere un killer. Ha dichiarato il regista aggiungendo: M’interessava creare un eroe verosimile e vedere come quest’uomo comune avrebbe reagito alle prese con un avvenimento che lo costringe a compiere delle scelte radicali.

Il riferimento alla tradizione del genere s’innesta, nel caso di Economides, su un universo creativo molto personale e ben definito. Giunto con Stratos al suo quarto lungometraggio Economides, di origine cipriota, è uno dei registi più originali e coerenti della giovane generazione. Molto prima dello scoppio della crisi economica e dell’arrivo di quella ‘nuova onda’ di un certo cinema greco che ha conosciuto, nel corso di questi ultimi anni, un grande successo internazionale – mi riferisco qui ai film di Yannis Lanthimos, Athina Rachel Tsangari e Alexandros Avranas- Economides si era già fatto notare nel 2002 con la sua opera prima Spirtokouto (Match box), un film tagliente, radicale, intriso di violenza latente e decisamente anticonformista, popolato di personaggi sgradevoli e assolutamente incapaci di relazionarsi con il loro entourage se non ricorrendo a un comportamento aggressivo e a un linguaggio trash dominato dalla reiterazione compulsiva. Il suo secondo film Soul Kicking, nel 2006, è stato presentato alla Semaine de la critique del Festival di Cannes,  Knifer il suo terzo film uscito nel 2010 è stato proiettato in prima mondiale al Festival di Pusan e ha vinto in Grecia molti premi prestigiosi.

Stratos è il primo film di genere del regista; pur adattando il suo universo visuale- di solito confinato nella ristrettezza asfittica dello spazio abitativo dei protagonisti – alla dimensione aperta dell’ambiente in cui opera il protagonista, la firma di Economides è perfettamente riconoscibile nella struttura dei dialoghi e nell’uso peculiare della lingua. Purtroppo i sottotitoli cancellano completamente la specificità del linguaggio utilizzato nel film che riflette, con un gusto spiccato per il grottesco, il modo di parlare di un certo milieu: ripetitivo, volgare e violento.

Giocando sul non detto la pellicola – che mantiene sempre un nucleo di mistero e d’indefinitezza- ci svela il suo plot con parsimonia, attraverso dei brandelli d’informazione che andranno, pian piano, disegnando la mappa della vicenda e il puzzle della vita di Stratos.

Verso la metà del film l’uso dell’ellissi crea una specie di cesura che non ci permette più di seguire chiaramente il perché degli eventi e sembra scindere la storia in due blocchi in un certo senso indipendenti. Questo iato narrativo è certamente uno dei maggiori difetti della pellicola.

La fotografia che capta sapientemente la luminosità cangiante dei paesaggi maestosi, filmati spesso all’alba o al tra
monto, è associata a dei piani lunghi che abbracciano l’orizzonte soffermandosi su luoghi lontani da ogni cliché turistico. Econimides filma degli spazi perennemente desertici: sia la casa di Stratos che il villino di Petropoulos si trovano persi in zone inurbane, relativamente recenti ma già segnate da un declino evidente. Più che nella trama stessa, che non vuol essere in alcun modo un’allegoria dell’attuale situazione economica del paese – il regista ha spiegato che il suo film non va letto né interpretato in questa direzione – la crisi filtra e traspira come un dato di fatto, dalle immagini di marciapiedi distrutti, di muri sfigurati dai graffiti, di fontane fuori uso e strade stranamente vuote.

L’unica scena veramente affollata è quella della suggestiva sequenza finale in cui Vicky, ignara della sorte che l’attende, balla con gioia sensuale la sua ultima danza nel mezzo di un locale di campagna pieno di gente.

La colonna sonora di chitarra acustica sottolinea a tratti gli eventi della vicenda creando, con una grande economia di mezzi, un’atmosfera particolarmente suggestiva.

Stratos soffre purtroppo del ritmo particolarmente lento, quasi ipnotico della narrazione; un ritmo che ha certamente la sua ragione di essere generando dei meandri in cui il protagonista resta costantemente prigioniero, ma che, nonostante tutto, diluisce eccessivamente la tensione narrativa. Per la sua interpretazione di Stratos – la sua capacità a fare trasparire su un volto volutamente inespressivo la struggente melanconia dello sguardo è straordinaria- Vangelis Mourikis potrebbe meritatamente aspirare al premio della migliore interpretazione maschile.

Il film è stato prodotto in Grecia da Christos Kostantopoulos (Faliro House), un giovane produttore sensibile e lungimirante che può contare al suo attivo non solo gli ultimi film di Avranas, Tsangari e Lanthimos, ma ha anche dei film del cinema americano indipendente come Only lovers left alive di Jim Jarmush e Somebody up there likes me di Bob Bouington, premiato a Locarno due anni fa.

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