Non è facile parlare del Macbeth, ci si confronta con un testo potentissimo, con un autore che con pochi altri condivide lo stato di genio assoluto in tutta la storia dell’umanità, che ha portato alla luce le domande più profondamente nascoste nell’animo umano e le ha rivelate in un modo sublime, caro al suo tempo, nella forma delle tragedie e commedie rappresentate in teatro. Oppure è facilissimo. Si apre wikipedia, si trova riassunta la storia, molto semplice, e si trova anche questa frase, pronunciata da Macbeth, nella quinta scena dell’ultimo atto, dopo l’annuncio della morte della regina Lady Macbeth nel celebre speech “tomorrow and tomorrow and tomorrow” : “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla”. Che di per sé appare come una banalissima enunciazione, già rappresentata da molti altri autori e filosofi, ma la cui reiterazione apre sempre nuovi orizzonti di lettura e il cui ascolto provoca sempre brividi e sgomento. Raccontarne la storia, dunque la trama, è inutile, tanto è semplice e nota, e anche la lettura originale è semplice, abbagliante e bellissima. Cos’è che rende allora quest’opera così affascinante, tanto da essere stata rappresentata innumerevoli volte nel corso dei secoli, da tutte le compagnie teatrali del mondo, e nel cinema da Orson Wells, da Polansky, da Branagh e ora da Justin Kurzel, giovane regista Australiano? Se ci volessimo addentrare in una analisi sul significato del Macbeth, e necessariamente sull’opera tutta di Shakespeare, sbaglieremmo il luogo e lo spazio, il tema è già stato affrontato in tomi poderosi da menti ben altrimenti capaci ed erudite, non ultimo Sigmund Freud, e tutt’ora, letterati, esegeti, storici e antropologi, psicanalisti, artisti, continuano incessantemente il magistero di decifrazione e di approfondimento dell’opera del folletto geniale di Stratford upon Avon, rima dopo rima, accenti e pause, nei minimi dettagli. Di cosa si può scrivere allora in un paio di paginette scarne? Dobbiamo limitarci a dire se il film sia o meno bello, se valga la pena andarlo a vedere? Qualcosa si può e si deve dire di Macbeth, del suo mondo delirante, della sua mente creatrice di fantasmi e da questi plasmata e forgiata verso l’inesorabile destino, destino contenuto tutto nelle profezie che lo perderanno, grazie all’ambiguità della parola e delle rivelazioni da essa enunciate. Si può dire che si assiste ad una macabra e affascinante danza della vanità e dell’ambizione, della perdizione che ne segue, e che questa danza si svolge nella luce fioca che scaturisce dal confronto tra le anime sperdute e speculari di Macbeth e Lady Macbeth, e che non sapremo mai chi tra i due è la mente che guida la danza che porta entrambi alla morte, che Macbeth voleva presuntuosamente beffare e vincere (o forse ricercare come suprema ambizione glorificata in eterno da Shakespeare?) tramite la stregoneria, e morte nella quale Lady Macbeth semplicemente si immerge, cullata dalla autopunizione catartica della follia (chi pulirà queste mani lorde di sangue…?). È questo gioco contrappuntistico dell’ambiguità tra i due protagonisti, della parola apparentemente insensata, dell’inganno svelato che beffardamente si rivela, che provoca in chi assiste alla tragedia un moto di curiosità e di stupore, così da venire egli stesso coinvolto, reso partecipe, fin dentro il midollo, dall’azione tragica. È Macbeth a voler uccidere il buon re Duncan e assecondare le profezie o è Lady Macbeth a spingerlo, a fornire supporto alla sua ambizione e redarguire la pallida cera della sua paura? Oppure è il destino ineluttabile? Oppure entrambi si prendono per mano e schiudono le porte al desiderio, inebriati, sapendo-non sapendo che la potenza del desiderio è insieme liberatrice e distruttrice? Forse è proprio questa volontà incosciente a guidare i due verso il loro destino, e lo fa in modo raffinato. E quando l’assassinio è compiuto e le mani di entrambi, lorde di sangue, sono lavate, è di nuovo Lady Macbeth a guidare la danza : “Eccole, vedi, adesso le mie mani han lo stesso colore delle tue; ma mi vergognerei d’avere in petto un cuore così bianco.” Un cuore così bianco… Nell’affascinante libro di Xavier Marias (Un cuore così bianco, Einaudi), la semplicità oscura di Shakespeare è ripercorsa e rivissuta in pagine e pagine di ambigua complessità in una circolarità apparentemente senza fine, dove: “tutti obbligano tutti, non tanto a fare ciò che non sono certi di volere, perché quasi nessuno sa cosa non vuole, e meno ancora cosa vuole, questo non c’è modo di saperlo”. Restano allora gli atti , “I have done the deed”, “ho commesso il fatto”, mormora Macbeth dopo l’assassinio e sembra parimenti che tutte le azioni, i fatti, ripetuti dalle parole e reiterati da esse innumerevoli volte nella storia del mondo, come le repliche di Shakespeare, acquistino consapevolezza della loro stessa esistenza e certezza solo con “l’irresistibile sussurro che ci persuade”. È la parola, il verbo, a essere reale, e i fatti e le azioni sono solo un riflesso di ciò che è già accaduto e che accade ora solo perché “l’irresistibile sussurro ci persuade”; “la lingua è la sua arma e il suo strumento, la lingua come goccia di pioggia che cade dal cornicione dopo il temporale, sempre sullo stesso punto… la lingua che indaga e discerne, che sussurra e bacia, che quasi costringe. … parole, traducibili parole che si ripetono di voce in voce, e di lingua in lingua e di secolo in secolo, sempre le stesse, che istigano gli stessi atti…”. Ora, questa digressione sul libro dello scrittore spagnolo, per diversi anni anche insegnante in università inglesi, del quale abusiamo per una ultima citazione da un altro suo libro: “Shakespeare lo si comprende o non perfettamente, e tuttavia apre dieci sentieri o imbocchi di strade entro cui addentrarsi per arrivare molto lontano ogni volta che usa una oscura metafora o un’ambiguità abbagliante”, è utile per concentrarci sul Macbeth che abbiamo da poco visto. La parola in questo film scompare, è relegata ai margini delle immagini e dei suoni che si vogliono presentare come esaustivi di un “fatto”, di un’azione avvenuta, come la loro “vera” rappresentazione. La brughiera è reale, le streghe non inclinano mai al gioco beffardo che ingaggiano con gli uomini, ma sono solo fantasmi dell’animo che si autoinganna, la battaglia iniziale gronda sangue e dettagli inutili, con slow motion, fermi immagine e suoni, che poi riprendono con frastuono e clangore; la fisicità e l’azione, anche sottolineati dal corpo dell’attore, prevalgono sulla parola, sulla lingua che bacia e sussurra… La poesia, la tragedia e il tempo -ché questi sono i temi che danno vita all’opera e da essi traggono linfa e che per questo ci coinvolgono- scompaiono di fronte alla realtà del qui e ora. Ciò che veniva rappresentato con mille sfumature, che scavava un solco sempre più profondo, come la goccia che cade dal cornicione , che si rinnova ogni volta che il testo, la parola, la recitazione compiono il nuovo miracolo, si perde dentro la logica dell’azione filmica, e con questo si perde il senso del tutto, tanto che si fatica a ricordare il momento in cui Macbeth pronuncia le parole: “Tomorrow and tomorrow and tomorrow….”, dopo la morte di Lady Macbeth, avvolta nell’oscurità del mistero e del tempo.

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