di Maria Giovanna Vagenas/ The load di Ognjen Glavonić, film sobrio ed intenso, c’immerge nell’atmosfera opprimente dei bombardamenti dell’ONU in Serbia nel 1999 per far luce su un crimine di guerra rimasto sepolto per quasi tre decenni.

Attraverso un road movie carico di tensione, intriso da una sensazione persistente di disfatta e di malessere, il regista esplora il vasto territorio geografico, psichico e mentale di un evento storico maggiore: la lunga guerra che ha dilaniato quella che un tempo era la Repubblica socialista federale di Yugoslavia, un conflitto fratricida, fra i più cruenti e feroci della storia recente del nostro continente, le cui ferite non si sono ancora cicatrizzate.

In The load il regista rielabora con i mezzi della finzione, un fatto storico ben preciso che aveva trattato nel suo film precedente, il documentario Depht Two (2016) in maniera diretta e frontale .

Ognjen Glavonić trova le immagini e i suoni adatti per costriure una storia finzionale intorno all’orrore dell’indicibile, compiendo un atto che, ancora al giorno d’oggi, nella realtà del suo paese, la Serbia, risulta un atto coraggioso.

Non si tratta solo di non dimenticare quanto è successo, si tratta ben più, di un processo necessario di presa di coscienza delle proprie responsabilità storiche.

Il gesto arstistico di Ognjen Glavonić é, nel contesto attuale, un gesto profondamente politico.

 

La conversazione che segue ha avuto luogo alla Quinzaine des Réalisateurs alla fine della proiezione stampa del film.

 

Cosa ti ha motivato nel 2017-2018, quando hai girato il film a ritornare sulla guerra che ha attraversato quella che all’epoca era la Yugoslavia, successa trent’anni fa?

 

Ho iniziato a lavorare su questo film nel 2011. La prima volta che ho sentito parlare degli eventi di cui si tratta nel film è stato nel 2009, cioè cira 10 anni dopo che erano successi.

Dopo esserne venuto a conoscenza ho cercato di saperne di più ed ho iniziato delle ricerche. In primo luogo ho cominciato col domandare ai miei amici e alla mia famiglia, poi ai miei professori d’università, se potessero dirmi qualcosa di più a proposito di questo caso, ma non ne sapevano assolutamente nulla.

Questa mancanza di informazioni ma soprattutto la mancanza di curiosità della gente riguardo a questi fatti che io ritengo molto importanti per la storia recente del mio paese (e non solo) hanno fatto sorgere in me une serie di domande e queste domande, a loro volta, mi hanno lentamente condotto fino al film.

Il tempo di lavorazione del film è stato molto lungo: abbiamo iniziato nel 2011 cercando di montare la produzione ma non riuscivamo a trovare i fondi necessari. Per anni interi ci è risultato impossibile trovare dei finanziamenti nel nostro paese ma, finalmente, l’anno scorso ci siamo finalmente riusciti.

La mia idea d’origine era di fare un film su un camionista che trasporta un carico, di cui è costretto, per contratto, ad ignorare la natura.

Questo era quanto pensavo 15 anni fa, ma quando nel 2016 ho fatto un documentario sull’organizzazione di questi crimini di guerra, sulla loro struttura e sul modus operandi di chi vi participava, mi sono servito di una serie di elementi che avevo scritto nella sceneggiatura originaria del film. Dopo avere concluso il documentario mi sono rimesso a lavorare sulla sceneggiatura cambiandola in modo sostanziale.

Il soggetto della sceneggiatura originaria èra, come dicevo prima, quello di un uomo che guida un camion senza sapere cosa sta trasportando ; durante il film lo vediamo, poco a poco, scoprire la verità su se stesso, su quanto sta trasportando e sulla storia attuale del proprio paese.

Riprendendo a lavoraci su, ho sentito di volere fare un qualcosa di molto più personale. Oggi mi sembra che il soggetto del film sia pittosto quello della “trasmissione” . Cosa dà una generazione a quella seguente? Quest’idea è sviluppata soprattutto nella seconda parte della pellicola.

 

Trovo molto ineressante il fatto che il padre definisca la guerra e gli attacchi dell’ONU contro Belgrado una sorta di video-game. Vorrei chiederti quali sono le fonti per la bellissima storia che il protagonista racconta, verso la fine del film al figlio, sulla sorte del nonno e del fratello di suo nonno, morto combattendo al lato dei partigiani durante la seconda guerra mondiale. E una storia vera?

 

No, il monologo del padre, Misha, sulla sorte di suo padre e del fratello di costui è tratto da una novella scritta dallo scrittore montenegrino Marco Vesnik. Ho usato solo alcuni elementi di questo racconto, la storia originaria non parla solo dei due fratelli e dell’albero di noci che segna il loro destino ma è molto più vasta e complessa.

Quando, scrivendo la sceneggiatura del film, ho capito che questa sarebbe stata la scena finale, ho iniziato ad adattare l’insieme della storia in modo tale che tutto sboccasse su questo racconto.

Proprio per questo motivo The Load è costellato di piccoli episodi, di momenti sparsi che hanno a che fare con dei bimbi o dei ragazzi molto giovani. Il riferimento alla nuova generazione è una costante. L’idea dell’albero struttura il film nel suo insieme: non ho pensato la narrazione in termini di linearità ma piuttosto come un’arborescenza, come un tronco con varie ramificazioni.

 

Il tuo film rappresenta per me quello che definisco “giovane cinema”, un termine che acquista qui tutto il suo peso e la sua importanza! Vorrei chiederti qual è il nome del gruppo punk-rock da cui dipende tutta la vicenda e di cui finalmente si sente la cassetta alla fine?

 

La Band si chiama Passi che significa: Cani. Si tratta di un gruppo punk-rock relativamente recente che oggi non esiste già più.  Mi sembrava che questa loro canzone potesse funzionare bene.

Quando penso ai miei ricordi dei bombardamenti –quando Belgrado è stata bombardata dalle forze dell’ ONU avevo 14 anni – so che cercavo di continuare a vivere come se la guerra non esistesse. Continuavo ad occuparmi di cose che mi appassionavano, come la musica. A quell’epoca ho scoperto il punk-rock. Capisco che possa sembrare strano ma i miei ricordi dei bombardamenti vanno di pari passo con quelli della scoperta di questo tipo di musica, ed è anche per questo che ci tenevo tanto a mettere questa canzone alla fine del film.

 

Il tuo film riesce a farci risentire tutta l’ampiezza dei crimini di guerra senza mostrarceli. Nella sequenza iniziale il protagonista, Misha, trova, vicino al camion, un lecca-lecca rosa nel fango. C’è una corrispondenza fra quest’oggetto e la biglia che trova all’interno del camion alla fine?

 

Certamente! Spero che questa corrispondenza sia ben percepibile. Oltre al loro valore simbolico, questi due oggetti hanno entrambi una forma circolare. La forma del cerchio è ricorrente nel film: il terzo elemento circolare è il monumento ai caduti dove i ragazzini si rifugiano per giocare.

Questi due oggetti sono gli unici – eccezione fatta per le fotografie che Misha trova appese sul muro della toilette di un ristorante- che filmo in primissimo piano ed entrambi danno un’indicazione molto chiara sul chi si trovava all’interno del camion.

 

Potresti spiegarci, più dettagliatamente, cosa erano esattamente questi trasporti speciali?

 

Su questo soggetto ho già fatto nel 2016 un documentario; Depht Two. Nel film ho utilizzato molto materiale proveniente dalle ricerche che avevo fatto per il documentario, soprattutto per potere situare la storia nel contesto giusto.

Mentre Belgrado veniva bombardata dalle forze dell’ONU, sul resto del territorio del paese la guerra continuava fra l’esercito serbo e le forze separatiste albanesi nel Kosovo. In questa guerra ci sono state innumerevoli violazioni di diritti umani da parte dell’esercito serbo contro la popolazione civile in Kosovo per in cui nel momento in cui l’ONU ha iniziato a bombardare, l’esercito serbo ha iniziato ad organizzare dei trasporti per spostare i corpi della popolazione civile massacrata in Kosovo e nasconderli, cioè sotterrrarli in Serbia, di modo che se le forze dell’ONU fossero arrivate in Kosovo non avessero più potuto trovare alcuna traccia dei crimini commessi contro la popolazione civile.

 

Quando nel 2016 hai mostrato il tuo documentario Depht two alla Berlinale (Forum), le reazioni ufficiali dalla parte delle autorità serbe sono state molto violente. Quali sono le reazioni in Serbia, in questo momento, riguardo a The Load?

 

Le reazioni in Serbia in questo momento sono violente e si rivolgono principalmente contro il Ministro della Cultura e contro il Serbian Film Center, perché queste istituzioni hanno contribuito alla realizzazione del progetto ma si rivolgono anche contro il festival di Cannes che, ai loro occhi, seleziona solo dei film che mostrano i Serbi come dei criminali. Ovviamente io sono considerato un traditore. Per finire, le autorità affermano che quanto viene raccontato nel film non è vero e che non è mai successo.

Queste reazioni non mi stupiscono, quando ho iniziato questo progetto me le aspettavo, erano prevedibili. Detto ciò io penso che un film non debba essere qualcosa di anodino, un semplice elemento decorativo per la casa, ma debba portare uno suardo critico  sul sistema politico e statale in qui viviamo.

Quando si fa questo genere di film ci si aspetta sempre un qualche contraccolpo, per me non è una sorpresa. Anche se questo tipo di critica proviene da persone che non hanno mai visto il film, non importa: che urlino pure!

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