di Maria Giovanna Vagenas/

Bertrand Bonello

 

Vorrei chiederle come lavora sul set.

Di fatto esistono pochissime foto di lei al lavoro… Parlando della messa in scena di Clint Eastwood, lei disse in un intervista che le sarebbe piaciuto molto poter mettere in scena i suoi film con altrettanta semplicità, ma appena si trova su un set non riesce a fare a meno di aggiungere sempre delle cose…

Come funziona il “laboratorio” della sua messa in scena: lavora su un piano a tavolino, prima di girarlo, oppure decide sul come impostarlo una volta che si trova sul set con la scenografia già montata? Questo processo é piuttosto solitario e mentale oppure ricorre all’aiuto dei suoi collaboratori, al direttore della fotografia, agli attori o allo sceneggiatore? Lascia una parte del lavoro al caso, alla sorpresa? Il dubbio fa parte del suo processo creativo o, al contrario, é piuttosto la certezza della visione di una cosa che l’ispira?

 

La ‘semplicità’ di Eastwood o quella di Renoir e di Buñuel sono un mito. Tuto sembra fatto senza uno sforzo eccessivo, ma non è così. Nessuno di questi registi arriva sul set dicendo facciamo questo o quest’altro, a cuor leggero. E impossibile! (risate)

Il tuo film ce l’hai nella testa e nel cuore, e non so dirvi esattamente come lo stai facendo ma, in qualche modo, lo fai! Lo stile di Clint Eastwood può sembrare semplice a prima vista ma il suo modo di lavorare è assolutamente professionale.

Per quanto mi riguarda, è sempre la solita vecchia storia: la mia famiglia apparteneva alla classe operaia, in casa non c’erano libri, io soffrivo di un’asma terribile, non ero in grado di fare dello sport, né altre attività fisiche ed è per questo che ho iniziato a guardare dei film e a volerne fare…

Così, quasi per gioco, ho incominciato a mettere in moto delle immagini combinandole con della musica, tanta musica di ogni tipo, vi ho aggiunto tutta la materia narrativa che ho attinto dai drammi che ho visto accadere in casa e nelle strade del mio quartiere. Ecco fatto!

Il cinema per me è un’arte dove si combina e si mischia tutto!

L’unico modo in cui, quando ero ancora adolescente, potevo cercare di esprimere una delle storie o delle idee che avevo in testa, era facendo dei piccoli disegni. Questi disegni sono poi diventati quello che, nel linguaggio cinematografico, viene definito come storyboard.

 

Per rispondere alla tua domanda: di solito mi sento molto sicuro quando inizio a girare un film. Prima di incominciare le riprese mi rinchiudo per due settimane in casa e disegno tutto, progetto tutto nei minimi dettagli.

Mi sono sempre occupato personalmente della composizione delle scene, delle dimensioni dei personaggi all’interno dell’inquadratura, dei movimenti della cinepresa e soprattutto del montaggio. Ho sempre girato i miei film in ordine temporale, filmando una scena dopo l’altra.

Tutte le scene di pugilato di Raging Bull le avevo progettate e disegnate su carta prima di girarle.

Ho usato questo tipo di procedimento soprattutto per girare Taxi Driver e Mean Streets perché avevamo pochissimo tempo a disposizione. Preparare tutto in anticipo ci permetteva di filmare molto più velocemente. Ho sempre lavorato facendo dei disegni; ne ho bisogno per mostrarli al direttore della fotografia e spiegargli esattamente come vedo le cose.

 

 

Nonostante ciò, uno dei registi che mi hanno influenzato più profondamente è stato proprio Elias Kazan che, negli anni 50, lavorava in un modo completamente diverso.

Per girate una scena con due attori prendeva la cinepresa, i personaggi erano nell’inquadratura e basta. Perfino John Ford, in molti dei suoi film, come per esempio nel western Two rode together, dirige semplicemente l’obiettivo su due attori che iniziano a parlare, come se stessero improvvisando.

 

Oggi ho smesso di fare disegni e note per alcune sequenze di dialoghi perché ho bisogno di lavorare con gli attori, ho bisogno di essere sul set almeno 10 minuti prima di una ripresa per vedere com’e, devo trovarmi sul posto.

Però nel mio ultimo film dove c’erano quasi 300 location diverse, mi sono servito di riprese video perché per me sarebbe stato molto difficile andarle a vedere tutte prima delle riprese.

Detto questo, quando poi sono arrivato sul posto, ho messo a punto personalmente gli angoli delle riprese ma, soprattutto, mi sono occupato dei miei attori e ho cercato di metterli a loro agio. Questa, direi, è diventata per me la mia mise en scène e, devo ammettere, che ha molto a che vedere con On the Waterfront, East of Eden e The Wide River di Elias Kazan. Dei film bellissimi!

 

Per esempio le scene dialogate in Raging Bull non sono state pianificate in anticipo. Il design di queste scene si è limitato alla location, alla scenografia, alla posizione degli attori nello spazio, ai loro movimenti all’interno dell’inquadratura ad alcune posizioni della telecamera e alla scelta del bianco e nero. Non avevo bisogno di pianificare oltre, mi sentivo sicuro … Bisogna anche dire che avevamo già girato tutte le scene di lotta prima, per ben dieci settimane! Sarebbero dovute essere solo tre all’origine! (ride)

Dopo avere finito di girare le scene di lotta ci siamo potuti concentrare sulle scene dialogate. Mi sembra molto importante trovare un giusto equilibrio fra le diverse parti di un rodaggio.

In questo senso sono stato influenzato molto dai film di Kazan quando avevo 14, 15 anni e da quelli di Cassavetes in seguito.

 

Per Taxi Driver, Mean Streets, Goodfellas e Casino avevo fatto dei disegni per ogni scena. Però non tutto può essere completamente pianificato: a volte ci si trova a dovere girare delle scene impreviste e non c’è nient’altro da fare che buttarsi e cercare di non farsi prendere dal panico. Ovviamente in una situazione di panico c’è anche molta eccitazione e creatività. Ci si mette a bestemmiare ma, onestamente parlando, i film si fanno solo in questo modo…

Noi tutti speriamo che un qualcosa di imprevisto – un buon imprevisto- succeda dando un impulso nuovo e provvidenziale al lavoro.

L’esempio di un buon incidente è la famosa battuta: “Are you talking to me?” Mi dispiace di ammetterlo! (grosso applauso)

Questa frase De Niro l’ha detta perché eravamo in ritardo sulle riprese ed io continuavo a stare dietro a tutti quanti spingendoli a fare in fretta! Ovviamente mi sono guardato bene dal tagliare questa frase accidentale in sede di montaggio.

Invece la battuta: “You think I’m funny?”, é stata, in un certo qual modo, un incidente programmato.

Joe (Pesci) mi aveva detto: “Farò il film solo se ti racconto una storia e tu la metti nel film!” (risate) Mi racconta la storia che gli è successa e io gli rispondo: “Ok. Ho capito!”. Non l’ho nemmeno scritta nella sceneggiatura perché sapevo esattamente dove avremmo potuto girarla. L’ho girata usando solo due cineprese e l’ho inserita in un giorno in cui stavamo girando qualcos’altro. Ci sentivamo tutti molto sicuri di noi stessi. Ovviamente, avevamo fatto delle prove prima. Ray (Liotta) e Joe (Pesci) ci avevano lavorato su parecchio e mi avevano proposto varie versioni di questa scena, io le avevo trascritte tutte poi, partendo da questo materiale, ne avevo scritta una nuova, gliel’avevo data ed è questa che hanno poi recitato sul set. Così alla fine non ho fatto altro che combinare due prese diverse dello stesso dialogo.

 

 

Jacques Audiard

 

Ci sono delle scene girate in questo modo anche in Casino? Della scene costruite sull’improvvisazione?

 

Sto cercando di pensare …… Alcuni dei dialoghi erano scritti, però il dialogo tra Joe Pesci e Bob de Niro nel deserto- che è un momento cruciale del film- era un dialogo improvvisato.

E anche il dialogo tra Pesci e de Niro nella sua casa, dove De Niro indossa una tunica rosa, anche quella scena era aperta all’improvvisazione, lo stesso vale anche per molte scene con Sharon Stone. Robert De Niro l’ha aiutata molto a muoversi sul set, abbiamo iniziato a girare senza che lei se ne rendesse conto per cercare di cogliere una sua reazione naturale ed autentica. In Casino non c’è nessuna scena specifica come in Taxi Driver o Goodfellas, uno strano film, direi…

 

 

Bertrand Bonello

 

Ho l’impressione che Casino sia un film in cui tutto é spinto fino ai suoi limiti estremi; la velocità, la virtuosità, le due voci off, la doppia musica e che avanzare ancora di un centimetro avrebbe fatto esplodere tutto ma ciò non avviene proprio perché non si passa oltre questo limite. Vorrei sapere se nel suo lavoro lei ha la sensazione di volere spingere tutto ai suoi limiti estremi?

 

Non c’era nessun altro posto dove potessi andare. Fare altrimenti avrebbe significato implodere. In Casino Robert de Niro indossa all’ inizio del film una giacca rosa e dei pantaloni color crema poi entra in macchina, gira la chiave nell’accensione e l’auto esplode.

Una volta che hai tutto, che ti senti in paradiso, la caduta è inevitabile.

La sorte dell’uomo è questa: viene espulso dal paradiso a causa del suo orgoglio. É sempre la stessa storia. Nella nostra vita il livello successivo è quello della distruzione, dell’autodistruzione completa, l’esplosione di tutto uno stile di vita, di tutto quanto…

 

 

 

Bertrand Bonello

 

Tutto questo ha a che fare molto anche con la velocità, come se lei fosse ossessionato dalla velocità… ho l’impressione che questo aspetto sia già presente nei suoi primi cortometraggi, come se il cinema rappresentasse per lei il movimento, un elemento capace di colmare la paura del vuoto…

 

Direi piuttosto che la velocità proviene dal fatto che m’interessano moltissime cose, tutte contemporaneamente e dal fatto di volerle dire tutte in una volta sola…               In questo senso ho sempre ammirato profondamente i primi cinque minuti di Jules et Jim; immagine dopo immagine,  in una carrellata veloce, viene mostrato tutto in una volta: l’arte, i rapporti umani, il mondo in cui vivevano i protagonisti, e tutto è pervaso da una vera gioia di vivere!

Effettivamente la velocità è una trappola. Quanto velocemente possiamo andare in fin dei conti? Hai assolutamente ragione; ad un certo punto non ce la facevo più, per questo ho dovuto ricominciare tutto da capo.

 

Mi ha sempre colpito un tipo di musica molto veloce come quella della Mahavishnu orchestra e di John Mclaughlin. Quando ho ascoltato il loro disco The inner Mountain Flame per la prima volta l’ho trovato veramente straordinario!

Non mi piace molto il jazz ma è così veloce che internamente trovi la pace, ti purifichi. L’attrazione per la velocità è un po’ come l’attrazione di una falena per la fiamma. Mi costringe a vedere le cose in modo diverso. A volte mi succede anche di tenere la cinepresa fissa, di restare su un’inquadratura ma questa tranquillità è possibile solo dopo un eccesso di velocità. Diciamo che per poter raggiungere la potenza di una cinepresa immobile, ho bisogno anteriormente di una grande velocità.

 

 

Cédric Klapisch

 

Ho l’impressione che ci siano due tipi di registi; i registi per così dire formalisti che amano la stilizzazione e i registi più narrativi ai quali piace raccontare delle storie. Lei possiede l’incredibile qualità di sapere mischiare entrambi questi aspetti. Ci ha parlato prima della preparazione minuziosa dei suoi film attraverso gli storyboard e le prove con gli attori che non escludono a priori la possibilità dell’improvvisazione.

Come arriva ad amalgamare queste due tendenze contrarie: la volontà di raccontare una storia e l’amore per la stilizzazione?  

 

Direi che proprio questa è la tensione creativa, l’impulso che ci spinge a fare un film sapendo che, a volte, può essere un’esperienza terrificante. Come si fa a sapere quando fermarsi, quando bisogna dire basta alle riprese di una scena? Sinceramente non lo so. Non so mai cosa succederà. Ho solo l’idea di un insieme ma non so mai come ci arriverò per cui sono in preda ad un’ansietà costante.

Ecco perché ci sono così tante risate sul set! Scherziamo di continuo perché è l’unico modo per farcela. Almeno, io sento così. Devo cercare di semplificare le cose per poterle affrontare e questo senza tenere da conto anche tutte le difficoltà connesse ai problemi di produzione…

 

Non c’è nessun dubbio, sto invecchiando! Poco tempo fa ho dovuto arrampicarmi su delle montagne a Taipei, proprio io, uomo cittadino per eccellenza! E stata un’esperienza meravigliosa ma molto, molto, faticosa …

Sempre quado faccio un film c’è questa tensione fra i due aspetti di cui parlavamo prima e tutto succede così in fretta… Ecco perché ultimamente faccio molti film musicali come quello su George Harrison e quello su Bob Dylan, che sto terminando adesso.

Per me lavorare su questi soggetti è un po’ come trovare delle storie non lineari, per così dire, mi libera dal dovere affrontare le difficoltà dei film narrativi che realizzo di solito, sento il bisogno di esplorare delle nuove possibilità espressive, al di là della linearità narrativa.

 

 

Rebecca Slotovsky

 

Il gusto per il formalismo, può farle prendere il rischio di uscire dal terreno della narratività, il rischio di entrare ed uscire dalla linearità del racconto, creando una specie di corrente alternativa all’interno del film stesso?

 

Abbandonare la linearità della narrazione per un effetto stilistico può essere molto pericoloso. Spesso per farlo si sacrifica qualcos’altro, e il problema è che non ce ne rendiamo conto subito. Penso di non esserci riuscito sempre, ma quando ha funzionato mi sono detto che, effettivamente, ne valeva la pena.

È un po’ come la storia di Rodin con la statua di Balzac di cui tutti ammiravano solo le mani. Pare che un giorno Rodin, infuriato, prese un’ascia e gliele tagliò per costringere la gente a guardare la statua nel suo insieme. Sinceramente io non penso di essere capace di tagliare delle mani! (ride)

Proprio per questo lavoro con una montatrice, sempre la stessa, Thelma Schoonmaker, da trent’anni a questa parte. Siamo dei vecchi amici e fra noi c’è una grande complicità. Insieme continuiamo a cercare, sperimentare, tentando di trovare nuove soluzioni, provando e riprovando fino ad essere soddisfatti del risultato. A volte lei mi dice di tenere un piano perché è molto bello, io invece m’impunto e le dico di buttarlo via subito. Poi finisco per guardare di nuovo tutto e decido di rimetterlo! È una lotta continua, fatta di tentativi continui…

 

 

Rebecca Slotovsky

 

Nel 1987 alla domanda perché gira dei film, lei rispondeva in questo modo: “ Fra i miei più vecchi ricordi ci sono quelli di quando andavo al cinema con i miei genitori; l’entrata nella sala oscura, il tappeto soffice, le sedie comode, la magia dello schermo….. Il cinema era un luogo dove mi sentivo sicuro, protetto, dove potevo sognare che mi permetteva, soprattutto, di stare vicino ai miei genitori. Forse il mio desiderio di fare dei film non é nient’altro che un tentativo di rivivere queste sensazioni di un tempo, la ricerca della possibilità di sognare senza limiti un modo per sentire di nuovo la presenza dei miei genitori e di coloro che mi volevano bene. “

 

Nel 1987, quando ho scritto quanto lei ha citato, entrambi i miei genitori erano morti da poco. Il fatto di averli perduti e di avere compreso l’importanza del ruolo di mio padre e di mio zio nella mia vita, mi portarono a girare Mean Streets.

Fare cinema per me è un modo per condividere con gli altri delle esperienze, dei pensieri, dei sentimenti, quanto penso di avere vissuto andando al cinema da bambino con i miei; ovviamente non si tratta sempre e solo di condividere il bene, la felicità, a volte ne va anche di eventi traumatici, di brutte storie.

Può darsi che nel pubblico ci siano due, tre ragazzi in una situazione simile alla mia quando avevo la loro età e forse saranno toccati da quanto vedono…

 

 

 

Rebecca Slotovsky

 

La sua storia personale e il suo percorso artistico mi sembrano marcati dal peso della ‘scomparsa’ ; scomparsa delle persone care che ci hanno lasciato per sempre così come pure delle opere cinematografiche deteriorate e distrutte col passare del tempo. Potrebbe parlarci del suo impegno per preservare il patrimonio cinematografico attraverso la World cinema Foundation?  

 

Lo sappiamo… tutti scompariremo un giorno dalla faccia della terra, é il nostro destino.Però perché il cinema, i film di un tempo, dovrebbero scomparire a loro volta ? Chi l’ha detto? Questa non é una fatalità! Sono votati alla distruzione per la sola ragione di non generare più dei profitti ? Non sono d’accordo! Bisogna permettere ai film di continuare a vivere, ad esistere nel tempo.Io non potrò mai dimenticare tutto quanto mi ha apportato il cinema quando ero un bambino, un adolescente e poi un giovane uomo; le esperienze che ho vissuto guardando dei film, le emozioni che hanno suscitato in me, lo shock che mi hanno provocato é stato talmente potente da influenzare profondamente tutta la mia vita futura. Tutto ciò non può scomparire così nel nulla. Deve poter toccare ed emozionare altre persone in un modo simile. Potrei citare molti film francesi, italiano o americani ma non oso neanche citare dei titoli perché non potrei perdonarmi di non averne citato degli altri. Pensavo, per esempio, di avere già visto così spesso The Searchers di John Ford che non avrei più avuto voglia di guardarlo, fino al giorno in cui, recentemente, mi é capitato di vederlo di nuovo e lì mi sono reso conto di quanto questo film mi aveva toccato. Per me l’esperienza di questo film é un’esperienza spirituale, liberatoria, catartica e trascendentale, direi. Dopo averlo visto, la tua vita cambia.Mi domando perché dovremmo permettere a questi tesori di scomparire? Se si può fare qualcosa per salvarli, allora facciamolo!

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