Maria Giovanna Vagenas/ Quest’anno per festeggiare in modo unico la sua 50esima edizione la Quinzaine des Réalisateurs ha deciso di attribuire l’ambito premio della Carrosse d’Or ad un cineasta eccelso: Martin Scorsese.

Mostrando già dagli inizi la sua vocazione a scoprire e promuovere il giovane cinema d’autore, la Quinzaine aveva selezionato nel 1974, sei anni dopo la sua creazione, Mean Streets, terzo lungometraggio di Scorsese, rivelando così al mondo intero un  regista e un gruppo attori dal talento favoloso.

Per commemorare questo evento la Quinzaine ha offerto al suo pubblico un pomeriggio memorabile, proponendo una proiezione di Mean Streets seguita da una conversazione-masterclass con Martin Scorsese.

Invitati a discorrere con il regista, quattro rappresentanti del cinema francese d’autore: Jacques Audiard, Cédric Klapisch, Bertrand Bonello e Rebecca Zlotowsky, membri del consiglio di direzione della Sacem, la società degli autori e compositori ed editori di musica che gestisce la Quinzaine.

L’aspettativa e l’entusiasmo del pubblico si sono tradotti in una fila d’attesa enorme fuori dalla sala-teatro Croisette. Moltissime persone sono rimaste fuori. Chi, dopo la lunghissima attesa, ha avuto la fortuna di entrare, ha trascorso delle ore elettrizzanti.

Martin Scorsese non ha smentito la sua leggendaria energia, la sua velocità di locuzione, il suo humor e la sua generosità rispondendo a tamburo battente alle domande dei suoi colleghi.

 

 

Mean Streets é stato proiettato alla Quinzaine nel 1974, esattamente 44 anni fa. Si ricorda ancora di quella sua prima Quinzaine? Cosa ha significato per lei la sua prima visita a Cannes?

 

Quando sono venuto a presentare Mean Streets alla Quinzaine nel 1974,  era la prima volta che venivo a Cannes e, ad essere sincero, forse é stata anche la più bella di tutte perché a quell’epoca non mi conosceva nessuno, ero un anonimo qualunque e, allo stesso tempo, stavo cercando di fare di tutto per smettere di esserlo! (ride)

 

Quello che voglio dire è che a quell’epoca chiunque poteva passeggiare sulla Croisette, girare liberamente da un tavolo all’altro, da un luogo all’altro e aveva l’opportunità di vedere tutti quanti. Era un’esperienza esaltante; si potevano incontrare delle stelle meravigliose, degli attori, dei produttori, degli uomini d’affari equivoci, dei venditori, dei registi eccezionali come Herzog e molti altri. É stato un periodo veramente fantastico e sorprendente in tutti i sensi!

 

 Di chi si ricorda, più in particolare?  Pierre Rissient e, ovviamente, Bertrand Tavernier, sono stati di grande aiuto in quel momento della mia carriera.Purtroppo Pierre Rissient è appena deceduto (Pierre Rissient, critico francese, è deceduto il 6 maggio 2018). È stato lui a difendere questo film e a fare sí che fosse mostrato alla Quinzaine. Era un uomo meraviglioso, capace di aiutare il cinema nel senso più ampio del termine. É a lui che dobbiamo la scoperta di un certo cinema americano, caduto nell’oblio. Non bisogna dimenticare che quell’epoca era ancora un periodo di scoperta non solo per quanto riguardava i nuovi registi americani come me, ma anche per quelli della vecchia generazione che erano stati sottovalutati o ignorati fino a quel momento.  A Cannes Pierre Rissient e Bertrand Tavernier discutevano con entusiasmo di cinema americano citando dei nomi come quello di John H. Auer per esempio. Erano veramente dei grandi appassionati capaci di descrivere perfettamente la geografia delle scene in un qualsiasi film Raoul Walsh, per esempio. Ammiravano il modo di lavorare di questi cineasti americani perché non indulgevano mai in fantasie futili nei movimenti della cinepresa e conoscevano i luoghi in cui effettuavano le loro riprese nei minimi dettagli.

Mi ricordo ancora il giorno in cui Tavernier mi disse: “Ho scoperto un nuovo regista che ha fatto dei film con Republic productions!” Figuratevi, si trattava di John H. Auer! (risate)

 

Molti anni dopo, la Paramount ha finalmente comprato l’insieme dei film prodotti da Republic. Sono stati tutti restaurati e presentati, in una serie di cicli che ho curato personalmente, al Museum of Modern Art. Ovviamente fra questi film c’erano anche quelli di John H. Auer. Sono passati ben 40 anni da quando ne avevamo parlato la prima volta a Cannes con Bertrand Tavernier. Quando glie l’ho detto mi ha risposto: “Era ora!” (grande applauso)

 

 

Rebecca Slotovsky

Cosa ha significato per lei venire alla Quinzaine con Mean Streets?

 

Ha significato l’inizio della mia carriera internazionale! La Quinzaine è stata la piattaforma internazionale di Mean Streets, un film cha all’epoca pensavo che non sarebbe mai stato distribuito…

 

 

Jacques Audiard

Ho sempre pensato che i film sono delle risposte a delle domande. Se Mean Streets è una risposta, a quale domanda risponde? Detto in altre parole: ogni film che facciamo ci insegna qualcosa. A lei cosa ha insegnato Mean Streets

 

Non sono sicuro di avere imparato qualcosa. Le questioni sollevate dal film riflettono le condizioni in cui ero cresciuto.

Il posto in cui sono cresciuto visto attraverso il prisma della mia percezione da bambino e da giovane adulto era un posto molto pericoloso a vari livelli, popolato da gente molto dura ma anche da alcune persone molto buone. C’era di tutto; c’erano i buoni e c’erano i cattivi! Il soggetto centrale di Mean Streets era fondamentalmente questo: come si può condurre una vita buona e onesta in un ambiente e in un mondo che non lo è?

 

Jacques Audiard

Cosa può dirci sulla mitologia dei personaggi di Mean Streets?

 

Che non c’è dubbio che i personaggi di Mean Streets e quelli dei miei film successivi, sono in fondo gli stessi che ho potuto incontrare nella mia vita. Nel corso degli anni sono stato sempre attratto dall’ambiente in cui sono cresciuto e da personaggi che riflettono delle persone reali. Mi sono molto interessato alle amicizie fra uomini e soprattutto ai rapporti fra fratelli.

Io stesso ho un fratello maggiore, molti elementi del nostro rapporto si riflettono nei miei film.

In definitiva mi sento molto più a mio agio con questo tipo di soggetti, posso esplorare meglio i personaggi di questo ambiente. La questione che ne sta all’origine di Mean Streets è in definitiva questa: se qualcuno vive in un ambiente violento e si comporta di conseguenza è per forza cattivo fino al midollo, o c’è anche qualcosa di buono in lui? Ben oltre: il bene e il male sono congeniti nell’animo umano?

 

Tutto ciò aveva anche molto a che fare con il senso della responsabilità, con quello che vedevo intorno a me; con mio ​​padre, con i miei zii, con mia madre. Con il senso di responsabilità che sentivano gli uni nei confronti degli altri, nei confronti della famiglia e di coloro che detenevano il potere nel nostro quartiere. Da un lato c’era il senso della responsabilità e dall’altro quello del dovere.

La domanda però è questa: dove finisce il nostro dovere? Fino a che punto siamo in obbligo di fronte agli altri?

Per quanto riguarda Mean Streets, anche se gran parte del film rispecchia quanto vivevo all’epoca nei primi anni ’60, mi ci sono voluti anni ed anni per capire che, quello di cui parlavo veramente nel film, il vero soggetto di Mean Streets era mio padre e il suo rapporto con il fratello minore. L’ho capito solo quando sono morti. Il fratello minore di mio padre morì solo pochi mesi dopo di lui.

Mio padre stava ancora facendo dei “favori” come si suole dire. Mia madre gli diceva sempre di non farlo, purtroppo invano. Mio padre era sempre nei guai, entrava ed usciva di prigione di continuo, ma io l’amavo molto. Era un uomo meraviglioso!

Mia mamma aveva sei o sette fratelli e mio padre pure, per questo i miei genitori decisero di fare solo due figli! (risate)

Quello che per altri forse sarebbe stato semplicemente un melodramma nella nostra famiglia veniva vissuto come un vero dramma, come una tragedia ed era all’ordine del giorno suscitando discussioni accese di tipo filosofico e morale dalle conseguenze molto serie.

 

Tutto questo mi fa venire in mente un aneddoto sul famoso guru Gurdjieff. Negli anni trenta Gurdjieff aveva raccolto intorno a se molti discepoli ed era solito insegnare le sue dottrine ad un folto gruppo di devoti. Fra i suoi studenti ce n’era uno che era irritante ed insopportabile, finché un giorno improvvisamente si alzò precipitosamente e se ne andò via. Il resto degli studenti disse: “Grazie a Dio, finalmente se n’è andato!” Ma Gurdjieff rispose: “No, nient’ affatto! Costui era il nostro maestro!” (risate)

 

Nella mia adolescenza mi ha molto marcato un prete che era un buon insegnante, un vero mentore. Non insegnava in classe, ma per strada. É morto l’anno scorso. É stato lui a farmi capire che dobbiamo cercare di andare oltre, avere delle mete, che non dobbiamo accontentarci di quanto abbiamo davanti ai nostri occhi, ma tentare di esplorare il mondo per quanto questo possa sembrarci difficile. Io ho deciso di esplorare il concetto di amore e di compassione. Dovevo farlo perché l’alternativa sarebbe stata quella della violenza e dell’omicidio.  Questo è quello che penso, quello che ho visto intorno a me; molta bruttezza e un po’ di bellezza. Bisogna trovare del buono in se stessi- ci diceva quel prete- ed essere in grado di affrontare le altre persone in questo modo. Era un uomo molto interessante; ci aveva dato da leggere Graham Greene e gli scritti del giornalista  radicale Dwight McDonald, ci aveva fatto vedere molti film, molti western ma era anche molto duro con noi.. Io sono stato persino buttato fuori dal gruppo dei chierichetti perché ero pigro e arrivavo sempre in ritardo alla messa delle 7 del mattino! (risate) Quanto quest’uomo aveva insegnato a me e a vari altri bambini in quelle strade, fu davvero importante per le nostre vite e lui rimase un mio amico per sempre.  Cédric KlapischVorrei riprendere la questione morale di cui si parlava prima. Il personaggio interpretato da Harvey Kaitel in Mean Streets dice: “ I propri errori non si riparano in chiesa ma per strada!” Questa frase mi sembra molto emblematica perché nei suoi film Lei oppone spesso la vita di strada con una ricerca morale e spirituale, d’altra parte si diletta a mostrarci dei ritratti di mafiosi, di spacciatori e di fuorilegge. Vorrei sapere se per Lei il cinema si nutre dello spettacolo del male e del peccato?  Quanto mostro nei miei film è quello che penso, quello che ho appreso e vissuto nel mio quartiere, dove però ho anche fatto l’esperienza dell’affetto e dell’amore tanto in seno alla mia famiglia quanto anche al di fuori.  Da ragazzo sentivo spesso che c’era qualcosa che non andava bene, eppure alcuni di questi malviventi erano, a modo loro, anche delle brave persone. Tutte queste esperienze, apparentemente contraddittorie, mi hanno fatto riflettere molto sulla natura dell’essere umano.   In un momento di pericolo estremo, per esempio, cosa fa sì che una persona rischi la sua stessa vita per salvarne un’altra e cosa fa si che un’altra fugga a gambe levate? Cosa avrei fatto io, in un caso del genere? Sarei scappato? Credo di sí! Ci troviamo in uno scontro continuo con noi stessi, con la nostra coscienza.Proprio per queste ragioni all’inizio del film si parla del dovere di fare penitenza, di riconoscere i propri peccati, di cercare di porvi rimedio e di trovare un equilibrio. Questo non va fatto in chiesa, assistendo alla messa, ma nella vita e nei confronti di chi ti sta intorno. Però é molto probabile non riuscirci…. D’altra parte il senso dell’humour, della commedia – una commedia al quotidiano- è sempre stata molto importante nella mia vita, già dal tempo della mia infanzia, attraverso mio fratello e tanti dei nostri amici. Il senso dell’humour e del comico è un elemento essenziale del modo di vivere degli italiani ma anche degli Americani. Non bisogna dimenticare che riso e il pianto sono le due facce di una stessa medaglia. L’aspetto tragicomico dell’esistenza umana mi ha sempre accompagnato.

 

 

 

 

 

Cédric Klapisch

In effetti nei suoi film c’é sempre dell’humor anche quando Lei parla di violenza o di questioni di morale, io vedo nei suoi film anche delle commedie. After Hours e King of comedy sono delle commedie per lei?

 

 Pensavo che After Hours fosse una commedia. Ma in realtà era un incubo! (risate in sala) Un incubo molto divertente un po’ come il film Mother di Darren Aronofsky, in cui un sacco di gente continua ad arrivare in una casa e la donna dice a suo marito “Mandali via!”No, vedrai, andrà tutto bene!” poi alla fine queste persone distruggono tutto e si mangiano pure il loro bambino. Una vera follia! Ma il film mi è piaciuto! (risate e grosso applauso) Ho fatto proprio un sogno così due sere fa: non potevo uscire, la gente continuava ad entrare. Oh, va bene, non preoccuparti…. Dio mio!… Per me girare After Hours é stata un’esperienza divertentissima. Nel film il protagonista vuole semplicemente incontrare una donna; forse iniziare una relazione o trovare l’amore o una qualsiasi altra cosa ma per arrivarci, deve prima soffrire, soffrire molto! Negli anni ’80 il mondo era molto diverso da oggi, più complicato in un certo senso….È un po’ come quando s’incomincia di nuovo a frequentare delle donne dopo una separazione difficile. Ad una certa età quando devi incontrare qualcuno per la prima volta tutto diventa molto strano, incominci a chiederti chi sei, se vali qualcosa per finire intrappolato in un mondo di cui non conosci più le regole. Nella mia mente, lavorare su After Hours è stato un po’ come cercare di risolvere un enigma, una specie di puzzle, come giocare con il cubo di Rubik!

 

Per quanto riguarda King of comedy, non so proprio se sia una commedia. Io penso di no. Per me è stato un film molto difficile da fare.

È stato De Niro che mi ha spinto a realizzarlo e, durante le riprese, ho trovato veramente molto arduo affrontare proprio tuto ciò che, nel soggetto del film stesso è così imbarazzante e sgradevole. King of comedy è un film che mi ha insegnato molte cose su me stesso proprio come succede al personaggio di Rupert Pupkin interpretato da Robert de Niro.

 

Rebecca Slotovsky

Qual’era il perché di questo malessere?

 

 

Stavo attraversando un periodo difficile. A volte addirittura non volevo neanche andare sul set e facevo aspettare il povero Jerry Louis per ore intere!

L’ultima volta che ho visto Jerry lui aveva già 91 anni, qualcuno gli ha chiesto: “Cosa cerchi quando fai un film?” e lui ha risposto: “ Arrivo, inizio a lavorare o aspetto di andare sul set, ma se non mi diverto, vuol dire che sulle riprese qualcosa non va bene. Divertirsi non significa necessariamente ridere, ma se non riesco a concentrarmi e a trovare la motivazione necessaria, allora qualcosa non funziona!”

Sul set di King of comedy dovevo affrontare ogni giorno questo tipo di atteggiamento da parte di Jerry Lewis ed è stato molto duro anche perché, al tempo stesso, mi stavo dolorosamente rendendo conto di quanto il carattere di Rupert fosse vicino al mio ed inoltre sentivo che  anche Jerry Louis, dal canto suo, stata attraversando un momento delicato. Nonostante tutto, è sempre stato molto paziente con noi. In fin dei conti ho dovuto spostare la cinepresa solo una o due volte. Per me comunque l’esperienza del rodaggio di King of comedy resta pur sempre quella di un film esasperante e claustrofobico.

 

Sì, penso di essere stato davvero in imbarazzo per i sentimenti che provavo proprio perché sono cresciuto con i talk shows di New York di cui parla il personaggio di Rupert nel film e so esattamente di cosa stava parlando.

 

Sono affascinato dallo sviluppo del talkshow ma, tornando agli anni cinquanta, quello che si vedeva allora era veramente straordinario! C’erano dei cantanti d’opera o vocalisti meravigliosi come Mel Tormé, perfino Jack Kerouac poteva essere in scena. Era un’epoca selvaggia! Oggi molte cose sono cambiate. (ride)

Per chi, negli anni cinquanta, non aveva accesso alla cultura tradizionale, i talkshow erano qualcosa di meraviglioso. Per tutte queste ragioni, per me King of comedy è stato un film molto complesso,  potrei parlarne per ore ed ore….

 

 

 

 

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