[**] – La famiglia è geometria di sentimenti e, in quanto tale, nasce “sbagliata”per la natura irrazionale e destrutturante delle emozioni stesse. Le mezze verità, i silenzi, le aspettative con relativo strascico di sensi di colpa, la menzogna istituzionalizzata: tutto questo e molto di più costituisce l’humus dei legami di sangue, con relative tragicommedie. Fin qui nulla di nuovo, come non originale è l’impianto del film Stanno tutti bene, remake dell’omonimo film di Tornatore del 1989 con Marcello Mastroianni.

Kirk Jones indossa gli occhiali che guardano a senso unico dentro la famiglia, per raccontarne il disagio, dalla parte di un padre ormai vedovo (Robert De Niro)  che decide di andare a trovare i suoi quattro figli, i cui impegni esistenziali impediscono una tanto attesa riunione nel fine settimana, a casa sua. Sembra che, morta la consorte, i figli rifuggano dal sedersi tutti insieme ad una stessa tavola, dal parlare al telefono per più di cinque minuti e solo per brevi aggiornamenti, o forse è il genitore stesso ad accorgersi per la prima volta di sfumature dalle quali il lavoro e l’atteggiamento della moglie, l’avevano preservato. Lo spettatore scopre la risposta insieme al protagonista: lo accompagna nel viaggio attraverso gli Stati Americani nei quali si sono sparsi – o forse nascosti –  i figli, viaggio che è anche e soprattutto un percorso interiore, una emersione drammatica dopo una vita di apnea e brevi boccate d’ossigeno, giusto per sopravvivere, offerte compassionevolmente dalla moglie.

Frank Goode, questo il nome del protagonista magistralmente interpretato da un De Niro che non ha paura di mostrare gli anni, sposta lentamente la tenda che nasconde le quinte del teatro della sua vita, e osserva Rosie, Amy, Robert e David oltre i costumi di figlie e figli. Li vede spogliati dalle parole con le quali sua moglie gli raccontava i successi di ciascuno di loro, struccati dalla perfezione dei ruoli, improvvisamente fragili e forse un po’ vigliacchi. Quelle donne e quegli uomini incomprensibili e sfuggenti, forse anche un po’ banali nell’inventare scuse per evitare di affrontare il padre, sono gli stessi bambini che ha cresciuto? Quei bambini che la sua mente proietta e cerca disperatamente in volti ormai estranei, distanti, a tratti disperati, si dissolvono appena cerca di afferrarli, di ritrovarli. Cosa resta dell’amore, della costruzione di destini e carriere perfette, ai quali ha sacrificato una vita ma che da sempre hanno ripagato persino la malattia polmonare lasciatagli in eredità da un lavoro alienante? Forse il limite del film è nel finale che risponde a questa domanda, nel ripiegarsi rassicurante della denuncia, in sequenze di stucchevoli riconciliazioni e morti che perdonano, propri del cinema per famiglie, dove si piange – senza esagerare – si sorride e alla fine si applaude con le mani incollate di glassa politically correct .

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