Il merito più grande de I Viceré di Roberto Faenza è di aver “riportato alla luce” dopo più di cento anni un romanzo quasi dimenticato dalla grande letteratura, costretto agli angusti spazi di solito riservati ai cosiddetti “minori”; ed invece l’opera di Federico De Roberto, napoletano trasferitosi ben presto a Catania, che ha descritto mirabilmente il passaggio dalla Sicilia borbonica alla nuova (nuova?) Sicilia riunificata all’Italia piemontese è un grande romanzo, che ha in sé la pienezza e la forza espressiva del capolavoro.

La grandezza di un’opera sta soprattutto nella sua universalità, nella sua capacità di parlare a tutte le epoche. Questo romanzo di De Roberto dimostra il suo valore e la sua forza maggiore: mentre descrive mirabilmente le manie, le assurdità, le avidità e gli scontri generazionali degli Uzeda, grande e nobile famiglia di ascendenza spagnolesca, roccaforte del conservatorismo borbonico, salvo poi essersi riconvertita al più astratto liberalismo. L’autore ci lascia in eredità un messaggio che vale oggi come allora, smascherando l’antico vizio italico del trasformismo, l’abiura totale ai propri valori in nome dei propri interessi, della “roba” e del potere. E lo fa attaccando ferocemente lo Stato – nato già morto come il feto mostruoso di Chiara – e la Chiesa, basti pensare alle donne che entrano travestite da frati nel monastero dei Benedettini e alla rappresentazione della famiglia, dove lo scontro tra padri e figli, fratelli e sorelle, madri e cognate è totale.

Destra e sinistra oggi non significano più nulla” una frase che, in tempi di vaffa grilleschi, di caste più o meno potenti, di piccoli e grandi furbi del quartierino, illumina meglio di tante considerazioni la povertà morale della nostra Italietta. Ed è questo messaggio che piace a Faenza, il quale sembra ricordarci per tutta la durata del film che il suo intento è quello di parlare della realtà contemporanea e che Giacomo, Consalvo, il duca d’Oragua, donna Ferdinanda e tutto il caleidoscopio di personaggi che costellano il film sono soltanto il paradigma umano del vuoto di oggi: e va benissimo, perché la capacità di rileggere il passato per parlare del e sul presente è opera che solo in mani abili può riuscire, ma che qui sembra solo parzialmente riuscita, soprattutto perché il regista ce lo ricorda attraverso un didascalismo incessante e quasi fastidioso.

In un film sontuoso, cosa rara e apprezzabile in tempi di crisi cinematografica, e ben recitato – intensa la prova d’attore di Lando Buzzanca – le storie e i personaggi rimangono paradossalmente sullo sfondo, interessano al regista solo nella misura in cui possono consentirgli di parlare allo spettatore di oggi e ci appaiono per questo superficialmente abbozzati, senza le sfumature e la ricchezza del romanzo: se De Roberto ha il coraggio di penetrare gli uomini e le donne del suo universo, di scandagliarne l’animo, Faenza rimane al di sopra e alla larga, senza avere mai il coraggio di scendere dentro di loro, trasformandoli di fatto in figure stereotipate che vivono drammi e amori da melò, in una piatta successione di eventi che paga tributo al mondo della fiction televisiva. Sarà che ai Lancaster e ai Cardinale di una volta si sono sostituiti i Preziosi e i Capotondi di oggi, che per quanto lottino per nascondere orgogli e rivombrose, sembrano solo a tratti riuscirci, o sarà per la potenza del cinemascope, che riusciva a rendere magico un po’ tutto, noi compresi, ma questa è un’altra storia.

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