Disperazione: è lei la protagonista di questa moderna tragedia del grande cineasta Lumet il quale, a dispetto dell’età, dimostra in questa pellicola presentata fuori concorso alla Festa di Roma, non solo di non aver perso la sua cifra stilistica orientata verso le storie familiari e la rappresentazione del “male”  – oltreché per la scelta di New York come teatro d’azione e per una certa propensione alle ambientazioni asfittiche a riflettere i meandri oscuri dell’animo umano tipiche di capolavori come La parola ai giurati, Serpico, Quel pomeriggio di un giorno da cani – ma anche di essere ancora attento testimone della deriva morale dilagante.

Non perde il suo stile classico Lumet, piuttosto lo fonde con l’andatura nevrotica del cinema contemporaneo, dando vita a un thriller che, pur conservando nel montaggio a flash-back sovrapposti, nell’inquadratura e nella trama, il genere che lo definisce, piega la tecnica non tanto all’esigenza narrativa fine a se stessa – per creare suspence o piuttosto colpi di scena che svelino il dipanarsi degli eventi – quanto piuttosto a sottolineare la gestualità dei protagonisti, il non-detto, le sfumature atte a svelare l’abisso disperato nel quale vivono e affogano lentamente. La trama infatti è scarna come la sceneggiatura: tanto le prove recitative dei protagonisti quanto l’utilizzo della macchina da presa, bastano a comunicare allo spettatore quel vuoto vestito di mediocrità che abita ciascun personaggio.

I due fratelli Andy (Philip Seymour Hoffmann) e Hank (Ethan Hawke), che si trovano per ragioni diverse disperati e indebitati, decidono di rapinare la gioielleria dei genitori per risolvere i loro guai. Sembra un piano semplice, pulito: Hank entrerà all’apertura del negozio, in un attimo lo ripulirà – dato che ne conosce combinazioni, allarmi e vetrine – spaventando la vecchia commessa con una pistola giocattolo e poi l’assicurazione risarcirà i genitori della perdita. Nessuna traccia morale: un piano freddo e disperato. Nessuna sbavatura sentimentale nella rimozione emotiva costante che caratterizza le vite di entrambi: l’agghiacciante apparente ordine della vita di Andy, i cui frammenti sono incollati con strisce di cocaina e buchi di eroina, e Hank che affoga nell’alcool il baratro di un matrimonio fallito, una figlia da mantenere e la relazione con la moglie del fratello. Qualcosa però va storto: Hank non ce la fa a rapinare i genitori da solo e ingaggia un balordo che porta una pistola vera e, inoltre, l’anziana commessa quella mattina viene sostituita dalla madre dei due: in un attimo si consuma la tragedia. Tragedia in senso classico – non solo nella scelta di rappresentare un dramma familiare ma anche nel rispettare quell’unità spazio-temporale propria del genere. La vicenda si svolge nell’arco di una settimana ma Lumet, come si è detto, decostruisce il quadro, prendendo pezzi avanti e indietro, come fossero ciascuna unità drammatiche di tempo e spazio. Ma è una tragedia anche in senso moderno in quanto protagonista non è il Male biblico o faustiano, quanto lo squallore mediocre e ordinario di personaggi destrutturati, semplicemente vuoti.

A sottolineare questa diffusa banalità, oltre alla maestria espressiva degli attori, una sceneggiatura fatta di piccole preziosità nei dialoghi che svelano l’assenza di qualunque senso: Hank che cerca di nobilitare la relazione sentimentale con la cognata Gina (Marisa Tomei), mentre la donna ha ben presente che si tratta solo di attrazione sessuale. Le confessioni esistenziali di Andy al suo spacciatore raffinato, che incurante gli risponde secco di rivolgersi ad uno psichiatra. Destrutturazione narrativa. Puzzle interiore. Frammentazione dialogica. Inquadrature come specchi riflettono questa disperazione: come quando Andy rovescia su un tavolo di cristallo sassolini, uno ad uno: pezzi del suo io disperso. Il titolo originale del film è Before the devil knows you’re dead (prima che il diavolo sappia che sei morto), tratto da un detto cattolico irlandese che recita così: “E’ meglio arrivare in paradiso mezz’ora prima che il diavolo si accorga che siamo morti”. Il titolo dunque anticipa la premessa inespressa di questo motto: siamo tutti peccatori, e con tale scelta Lumet sembra suggerire fin dal titolo il quadro morale dei personaggi che si appresta a raccontare. Figure mediocri e immorali immerse in un ambiente saturo di disperazione, soffocante per lo spettatore al quale mai viene concesso riposo in questa lenta ma inesorabile discesa nel dramma. Nessuno sconto o didascalismo a dare senso alla natura distorta, imperfetta e complessa dell’uomo, fino alla tragica scena finale tra il padre (un grandioso Albert Finney) e Andy, nella quale non c’è spazio per altro all’infuori dell’odio e della ferocia.

Disperazione. Assenza di moralità. Violenza cieca. Siamo davvero arrivati a questo punto? La banalità è la cifra del male, come scriveva Anna Arendt, e come ci ricorda crudamente Lumet in questo gioiello cinematografico. E banale è l’humus nel quale vengono annientati gli esseri umani.

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One thought on “Onora il padre e la madre

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