di Maria Giovanna Vagenas/Dopo il grande successo incontrato dal suo primo film di finzione L’Intervallo alla Mostra del cinema nel 2012, Leonardo Di Costanzo ha presentato tre giorni fa il suo secondo, attesissimo lungometraggio, L’intrusa, alla Quinzaine des Réalisateurs.

Costruito come una pièce teatrale, all’interno di un centro sociale a Napoli che si occupa di bambini esposti ai pericoli di una criminalità onnipresente, L’Intrusa, mette in scena il dilemma morale di una donna che si trova a dovere prendere una decisione difficile e piena di gravi conseguenze per il suo lavoro e per la sua stessa vita. Leonardo Di Costanzo tratteggia con una forza pacata e una concisione espressiva ammirevole la complessità della situazione in cui si trova, suo malgrado, immersa Giovanna, la gerente del centro sociale, quando deve decidere se continuare ad offrire alloggio e protezione ad una giovane donna, madre di due bimbi e moglie di un camorrista accusato di avere ucciso un innocente.

L’Intrusa è la cronaca sensibile e dolorosa di un caso di coscienza. Di Costanzo l’affronta sondando, senza sensazionalismi e accenti melodrammatici, i complessi meccanismi dei rapporti umani e le dinamiche di gruppo all’interno del centro sociale e del microcosmo che gli gravita incontro. Portato ammirevolmente dall’interpretazione asciutta ed essenziale della danzatrice Raffaella Giordano, il personaggio di Giovanna, donna coraggiosa e tutta d’un pezzo, ci commuove profondamente con il suo atteggiamento posato e la sua capacità ad interiorizzare la sofferenza. Maria, l’intrusa del film, donna fiera, testarda e indipendente, interpretata con intensità dall’esordiente Valentina Vannino,  cerca anche lei una via d’uscita,  una scappatoia da una situazione insostenibile.

L’intrusa descrive dei personaggi in bilico, esposti alla responsabilità di dovere prendere delle decisioni cruciali.

Il circolo sociale che Di Costanzo descrive usando un approccio di stile documentario, un’oasi di pace e un giardino di giochi per i bimbi del quartiere che vi spendono i loro pomeriggi costruendo oggetti fantastici con materiali di recupero, diventa un campo di battaglia umano, sociale, ideologico e morale. Filmato ad altezza d’uomo, il film risponde, anche a livello estetico, ad un’esigenza etica. Sulle orme di un gruppo di bimbi, circondati dai problemi degli adulti che dovrebbero vegliare su di loro, Di Costanzo c’invita nel mondo dei giochi d’infanzia; qui si legge sui volti accaldati dalle scorribande, la speranza e la gioia di vivere. Il film termina con un finale aperto. Senza proporci ricette o soluzioni ad hoc, l’Intrusa ci invita semplicemente ad osservare e a riflettere.  Una vera lezione di cinema.

Con grande generosità, sorridente e disponibile Leonardo Di Costanzo, accompagnato dalle sue protagoniste, Raffaella Giordano e Valentina Vannino, ha lungamente parlato alla stampa del suo nuovo lavoro.

Potresti parlarci del tuo processo creativo ?

Quando s’inizia a fare un film non si ha sempre un’idea chiara e ben definita di quello che si vuole fare, non si tratta un processo intellettivo ma piuttosto emozionale; un film lo si sente dentro se stessi, in primo luogo.  Questo è molto importante. Poi durante tutto il processo di lavoro che inizia con la scrittura e che finisce al missaggio non si fa altro che cercare di mettere delle parole su delle intuizioni…

Lo ‘spazio’ in cui filmi il centro sociale è un elemento determinante de L’Intrusa, sei d’accordo?

Si, in effetti, per me era essenziale trovare lo spazio concreto che avrebbe contenuto questa storia. Lo spazio non è dunque un qualcosa che viene dopo, non scrivo una storia prima per trovare gli spazi in un secondo tempo, come si fa di solito. Per me lo spazio è un personaggio.

Durante le riprese non abbiamo fatto molti piani, partendo da una serie di punti di vista diversi; per ogni scena direi che c’era un unico punto di vista che andava bene. Ritengo molto importante non cadere nella trappola di buttarsi all’inseguimento della realtà, eravamo piuttosto noi a dovere imporre il nostro punto di vista. Partendo dal presupposto che la questione che si abborda nel film è quella di trovare dov’è il bene e dov’è il male, per me si trattava di trovare una specie di “terzo occhio”  che non vuole ovviamente presentarsi come un punto di vista obiettivo, ma è un “terzo occhio” che si muove, che si sposta  in un modo tale da suggerire allo spettatore che quanto si vede, il mondo che ci circonda, non è fatto di canoni chiari e netti.

La situazione di cui tratta il film per me è come se si dovesse essere sempre su una specie di frontiera, su uno spartiacque.

In quale quartiere di Napoli è stato girato il film?

Il luogo è Ponticelli; le riprese sono state effettuate alla Masseria del Marchese Morabito che ci ha messo questi spazi a disposizione. Questo posto mi è subito sembrato molto interessante perché il mondo esterno che lo circonda somiglia molto a dei fondali di teatro.

All’interno stesso della Masseria, cioè del centro sociale che avete ricostruito, c’è un muro con un murale gigante che riproduce la facciata di una casa. Siete stati voi ad allestirlo?

Si, siamo stati noi a farlo fare e rimarrà lì. Due pittori napoletani lo hanno realizzato a partire da un disegno di Gabriella Giannetti; sono stati lì a lavorare per un mese intero e si sono fatti una finestra alla volta!

Ne L’Intrusa operi, a mio avviso, un ritorno ad una forma molto essenziale e scarna di messa in scena. Sei d’accordo?

Riguardo al concetto dell’essenzialità del racconto e della maniera di filmare, L’intrusa è, in effetti, un film costruito partendo da un concetto molto diverso rispetto a quello del mio film precedente, L’intervallo. Abbiamo girato molte meno inquadrature rispetto all’Intervallo. Abbiamo però discusso molto con Hélène Louvart, la mia direttrice della fotografia, sul come impostare ogni scena. Per ogni scena c’era un punto di vista preciso; la posizione della macchina era molto importante, bisognava capire, ogni volta, scena per scena, dove doveva essere la macchina. Per me era capitale questa idea di stare tra i personaggi, tra il bene e il male, tra gli opposti; si trattava di trovare questa posizione, per così dire, “terza”. Come dicevo prima; ogni volta con Hélène ci posavamo questa questione e perdevamo molto tempo a discutere sul quale fosse il punto giusto per raccontare quella scena, non la facevamo da sette punti di vista diversi.  Proprio per questo, alla fine, in fase di montaggio, Carlotta Cristiani, la montatrice del film si è ritrovata con pochissime scelte.

Io vengo da questa scuola un po’ vecchia per la quale il punto di vista della macchina è il punto di vista etico; il punto di vista etico è il punto di vista di chi sta raccontando.

Quando le arrivava il materiale da montare, la montatrice diceva: “ma non dobbiamo montare, è già fatto!”.  Ovviamente non era vero, però lei il racconto già lo vedeva, perché il punto di vista era già chiaro. Di fatto c’è stato un grande lavoro di scrittura al montaggio però, c’erano pochissime riprese per ogni scena, che non era raccontata da sette punti di vista diversi, come capita spesso, e come molti fanno per sicurezza.

Cosa ti ha fatto passare dai documentari alla finzione?

Secondo me è stato il fatto di dovere raccontare delle storie che hanno profondamente a che fare con le vicende dei personaggi. “L’intruso” se vuoi, il fatto nuovo, nella finzione è la dimensione del racconto.

Quali sono le difficoltà che hai dovuto affrontare nel corso della preparazione del film?

La più grande difficoltà che ho dovuto affrontare è stata quando mi sono trovato di fronte alla sceneggiatura che avevo scritto e che ho cominciato a visualizzare per darle ‘vita’. Il quel frangente  mi sono reso conto che sarebbe stato molto complicato per me di trovare gli attori adatti perché si trattava di un racconto corale ed ogni attore  non aveva abbastanza testo per potere esistere, quindi bisognava che l’espressione dei caratteri passasse attraverso i corpi degli interpreti; sui volti, nei gesti, nella postura del corpo.

Come hai lavorato con gli attori napoletani?

A Napoli ci sono dei grandi attori, ovviamente c’è anche una sorta di autorappresentazione che talvolta finisce anche per essere una maschera… Ogni volta il mio compito è quello di trovare  come usare questa capacità, come utilizzare, per esempio, la fisicità degli attori napoletani per metterla a servizio di una storia. In questo senso cerco di seguire un percorso chiaro e ben definito, in cui lascio spazio all’improvvisazione ma all’interno di una struttura molto rigida.

Giovanna, la protagonista del film, direttrice del centro sociale, è una donna che viene dal Nord dell’Italia. In un certo senso, l’Intrusa sembra essere Lei. Vorrei sapere se quest’intenzione era già presente in fase di scrittura.

No, non avevo pensato a quest’aspetto in fase di scrittura ma, la maggior parte delle volte, quando vai in questi luoghi, ti rendi conto che chi li fa funzionare sono proprio delle persone che vengono da fuori, o da altri quartieri, che, comunque, non sono nate li.

Infatti, ad un certo punto del film, in mezzo ai bambini napoletani c’erano vari adulti francesi…

Per me il fatto che la gente venisse da fuori o meno non era importante; ad un certo punto, mi sono reso conto che nella sceneggiatura che ho scritto insieme a Maurizio Bruno,  gli attori avevano pochissimo tempo, pochissime battute a disposizione per potersi raccontare.

Quella del film è una storia corale, con tanti personaggi e ognuno di questi personaggi aveva pochissime occasioni per potersi raccontare e pochissime occasioni testuali, proprio in termini di righe, di parole da dire. Per questo motivo, una buona parte dell’interpretazione, doveva essere affidata al corpo, all’espressione, alla faccia. è  stato quest’aspetto che mi ha guidato nella scelta degli attori; per me era importante capire quanto potessero raccontare con la faccia o coi gesti.

Proprio per questo ho cercato l’interprete principale nel mondo del teatro e della danza e sono arrivato così a Raffaella Giordano. Certo il teatro-danza, da cui Raffaella proviene, ha un tipo di espressività, un tipo di racconto, molto più aereo rispetto al cinema in cui si tratta di raccontare qualcosa che ha a che fare con la realtà, quindi con Raffaella abbiamo lavorato molto per piegare, in un certo senso, questa espressività molto larga del teatro-danza, per ridurla a un qualcosa di molto preciso, di molto ancorato alla realtà.

Vorrei chiedere alla protagonista, Raffaella Giordano, qual è stata la tua esperienza, come ti sei è avvicinata al personaggio di Giovanna

Raffaella Giordano: Questo processo è stato stato molto intenso e molto aspro; perché sono sullo schermo dalla prima all’ultima scena.

Questa figura era una figura doppia; da un lato gode di un’infinita libertà ma da un altro ha come l’obbligo di passare in un sentiero strettissimo che sta cadendo a pezzi… Non ha un grande margine di scelta interiore, non so come dire…

Ho sentito molto forte questo grande peso, questa responsabilità, che pesa sulle spalle del personaggio di Giovanna, una donna che tenta, minuto per minuto, di proteggere e di raccogliere le persone intorno a lei.

Giovanna è presa in un dilemma costante, dove fare delle cose che cozzano l’una con l’altra. Se protegge una persona non ne protegge più un’altra. Questa  situazione mette Giovanna in uno stato di tensione, di contrazione continua che per me è durato realmente durate tutte le riprese.

Non è stato facile; io mi sentivo completamente immobilizzata anche perché gli appoggi sono molto diversi nell’ambito del movimento, della danza. Leonardo di Costanzo mi chiedeva del ‘fuoco’ ma questo fuoco  era proprio questa realtà nuda e cruda, spoglia di qualsiasi cosa che costituisce  l’essenza del film. Questo per me era come stare un po’ in piedi nel deserto, il ‘fuoco’ di un’interpretazione attoriale è molto diverso da quello dell’espressione corporea della danza, più espanso interiormente. Ho dovuto cercare di mettere a fuoco le cose, personalmente faccio sempre molta fatica a seguire le storie nella vita,  quindi questo per me è stato un esercizio potentissimo.

Vorrei chiederti se vedi questo film come un’ulteriore tappa di un percorso più grande, che magari continuerà, incentrato sulle giovani generazioni?

Non lo so, adesso è troppo presto, devo ancora capire che film ho fatto… che cosa succederà e quale sarà il film che verrà dopo, non ho proprio nessuna idea, proprio non lo so. Penso che le somiglianze de L’intrusa con L’intervallo siano effettivamente da vedere nella presenza dei bambini, ma devo anche dire che molte delle cose che si raccontano in questo film sui bambini non c’erano nella sceneggiatura, le abbiamo lavorate al momento della preparazione e delle riprese. I bambini sono, in un qualche modo, accessori, rispetto alla storia che volevo raccontare ne L’Intrusa, che è una storia di adulti.

Il film finisce mantenendo fede, in un certo modo, al titolo, Maria se ne va… Hai mai pensato che sarebbe stato legittimo, equo, che lei fosse accettata o non hai mai contemplato questa possibilità?

Si, forse,  sarebbe stato giusto, come dici tu,  ma il problema per me quando faccio un film è di capire su che cosa devo portare lo spettatore. Se faccio un finale come quello che proponi ci dimentichiamo del problema, non ci fermiamo più a riflettere sul dilemma. Se finiamo per regolare tutto  quello che  rimane è una solo storia con un happy end!

Il film più che sulla sua conclusione,è  centrato sul meccanismo, sul processo, su quanto accade lì, in quel momento, quando avviene l’incontro fra Maria e i tutti i personaggi del centro sociale.

La conclusione de L’Intrusa sembra essere pessimista, come se la sorte dei personaggi fosse una specie di catena che non si spezza. Era questa la tua intenzione?

Vorrei che il finale fosse visto come un finale aperto, che ogni spettatore è libero di interpretare a modo suo. Questo rispecchia in fondo quanto mi è stato detto da persone che fanno questo lavoro sociale da anni. Mentre facevamo le prove, io ho chiamato sul set un vero preside, un vero lavoratore, una vera direttrice di centri sociali per avere il loro punto di vista. Un giorno un lavoratore sociale si è proprio incazzato: “ Leonardo- mi ha detto- ma qua ci stanno i morti caldi e tu ti devi rendere conto che, ad un certo punto, quando vuoi costruire, devi anche escludere. Io faccio questo lavoro da 40 anni e mi sono reso conto che a un certo punto devo escludere qualcuno, per potere salvare tutto il resto! “

Comunque, per riprendere il discorso sulla fine, vorrei ribadire che il film si chiude su Mister Jones, sull’uomo che stanno costruendo i ragazzini servendosi di materiali di recupero. Quest’uomo, come si dice nel film, è un uomo meccanico ‘ca tene a capa dritta’; l’ultima immagine del film è quella! Molte volte per costruire con la capa ritta c’è qualche vittima però l’importante è non dimenticare mai quello che è successo prima.

Ad ogni il tipo di situazione che viene descritta nel film non è esclusivamente napoletana, può essere vissuta da chiunque pratichi un intervento sociale, in un qualsiasi luogo. Il film tocca delle questioni essenziali dell’umano in questo momento e questo è mi sembra molto importante.

Dal mio punto di vista, L’intrusa è un film che va al centro delle cose e sono molto contento che anche il pubblico- che in sala non ha fatto una sola domanda su Napoli- lo percepisca in questo modo.

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