Da Parigi Here, primo lungometraggio di Ho Tzu Nyen, è stata una delle opere più interessanti presentate quest’anno alla Quinzaine des réalisateurs a Cannes. Il film, che ci auguriamo possa presto trovare una distribuzione in sala, sarà proiettato nell’ambito di una vasta rassegna da poco inaugurata al Centre Pompidou di Parigi, “Singapour, Malaisie: le Cinéma!” (16 dicembre 2009-1 marzo 2010). Ho Tzu Nyen è un giovane artista proveniente da Singapore che ha al suo attivo una notevole carriera nel mondo delle arti audiovisive. I suoi diversi progetti – installazioni, video-arte, pittura, progetti teatrali e performance – sono prova di una  vena creativa poliedrica. Colto e idealista, Ho Tzu Nyen sa accoppiare la sua sensibilità artistica con l’impegno sociale e politico.

Ambientato in un ospedale psichiatrico Here è film dall’atmosfera leggermente enigmatica, forte di un linguaggio estetico sobrio e raffinato.
Di solito i film che hanno come soggetto l’ambiente degli ospedali psichiatrici non sono fra i miei favoriti; spesso illustrano con crudezza insopportabile o con un malcelato voyeurismo l’incommensurabilità del dolore umano, la tragedia dell’esclusione e della diversità o si presentano come denuncia delle atroci condizioni di vita dei pazienti, dei trattamenti devastanti che distruggono in loro ogni barlume di umanità. Here è un’opera profonda e intensa su questo soggetto, così difficile da trattare che, attraverso lo stile pacato e meditativo adottato dal  regista, risulta quasi rasserenante.

L’azione si svolge quasi interamente in un fantomatico ospedale psichiatrico, The Island, in cui sono internati tanto dei pazienti comuni quanto dei pazienti con un passato criminale. The Island si differenzia da altre istituzioni del genere per i suoi metodi d’avanguardia: i diversi tipi di pazienti sono integrati indistintamente nella vita quotidiana dell’ospedale e  vengono coinvolti in una serie di attività comuni. In The Island  si pratica una nuova terapia: la cura-video. I pazienti sono filmati sotto ipnosi mentre riproducono i fatti salienti che li hanno condotti in questo luogo; si tratta per lo più di un atto violento, di un’aggressione o di un omicidio. Sono in seguito invitati a partecipare al montaggio del materiale filmato. Il paziente dimostra di essere sulla via della guarigione quando propone un montaggio “alternativo” della scena in questione dando così a posteriori un altro corso agli eventi.
Prima di uscire dall’ospedale i pazienti devono superare un’ultima prova: durante una festa di addio in loro onore, organizzata dal personale e dai dottori, sono tenuti a dimostrare di potere partecipare, senza creare problemi, ad un evento della vita sociale.

Ho Tzu Nyen mette a punto un complesso dispositivo di film nel film, moltiplicando i punti di vista: un fantomatico regista, che non vedremo mai sullo schermo, si suppone stia facendo un documentario sull’ospedale psichiatrico, allo stesso tempo però all’interno dell’ospedale viene utilizzata un’ulteriore cinepresa per la cura-video. Al materiale filmato in 35 millimetri si alternano vecchi film di repertorio in super8 e riprese in digitale. Pur essendo il ritratto di un’esperienza collettiva la trama del film ha come suo filo conduttore la vicenda di He Zhiyuan, un uomo sulla cinquantina che tornando un giorno a casa uccide la moglie in un raptus improvviso. He Zhiyuan perde da quel momento in poi l’uso della parola. Per comunicare appunta i suoi pensieri su un quaderno che si porta sempre appresso.

In Here, Ho Tzu Nyen rompe con la tradizione canonica della rappresentazione della follia: nell’atmosfera rarefatta e quasi irreale di The Island il malessere dei pazienti non si esprime mai attraverso dei comportamenti violenti o eccentrici, ma piuttosto per mezzo del ritmo pacato dei loro movimenti, dell’espressione assente e melanconica dei loro volti. Fra i pazienti c’è un personaggio a parte, un giocatore di scacchi, che rappresenta la volontà di resistere al sistema. Il giocatore di scacchi si rifiuta di definire il proprio passato e i propri atti come degli errori, è l’unico che si addossa tutta la responsabilità dei propri errori e decide di non pentirsi. Here è un film filosofico; la questione che abborda non è quella di sapere se la natura profonda di ognuno di noi possa essere cambiata, ma se, di fatto, ciò sia lecito. Sulle tracce della filosofia nietzschiana, il film suggerisce che la saggezza consiste nell’accettazione della propria natura più profonda e del proprio destino, in un eroico Amor fati, ultimo bastione di dignità umana.

Ho avuto occasione di incontrare Ho Tzu Nyen a Cannes e di poter discutere a lungo con lui. Conservo un ricordo molto gradevole della nostra conversazione: Ho Tzu Nyen è un interlocutore disponibile, molto brillante e di una grande cortesia.

Ho Tzu Nien, tu provieni dal campo delle arti visive, Here è il tuo primo lungometraggio, come sei arrivato al cinema?
Ho sempre voluto fare un film di finzione; il cinema è una delle mie grandi passioni. Ho iniziato a lavorare come artista nelle arti visive principalmente perché a Singapore ciò ti dà molta più libertà.

Libertà per quanto riguarda le condizioni di produzione o il processo creativo in sè?
Direi riguardo ad entrambi questi aspetti. L’ambito dell’arte contemporanea a Singapore non è rigorosamente definito per cui, all’interno di questo panorama indistinto, è molto più facile fare ciò che si vuole, inoltre è molto più semplice ottenere delle borse di studio. Nel settore delle arti visive non si è sottoposti a nessun tipo di pressione da parte di un produttore mentre la creazione di un film richiede in misura molto più consistente l’appoggio di strutture finanziarie.
Io mi occupo principalmente d’installazioni di video-arte; fare un film di finzione non è stato altro per me che sviluppare ulteriormente quest’esperienza coinvolgendo un team di collaboratori. In un primo tempo ho creato una compagnia di produzione specializzata nelle installazioni di video-arte per i musei. L’anno scorso, infine, si sono finalmente  presentate  le buone condizioni per girare un film.

Com’è nato questo progetto?
La lettura ha un ruolo molto importante nel mio processo creativo. Per quanto riguarda Here lo spunto mi è stato dato da un libro del filosofo-psichiatra Felix Guattari. Guattari non era uno psichiatra ortodosso, in una delle sue opere descrive un metodo di cura sperimentale praticato negli anni Ottanta che si valeva dell’uso del video. I membri di una famiglia affetta da difficoltà disfunzionali venivano riuniti in una stanza. Poco dopo, inevitabilmente, scoppiavano dei conflitti che erano filmati. In seguito, la famiglia era chiamata ad osservare il materiale filmato in presenza di un medico e ad analizzare il proprio comportamento sullo schermo. Si trattava di un processo di auto-analisi; questo aspetto ha costituito il punto di partenza del progetto.

Quale è il libro di Guattari  a cui ti riferisci?
Si tratta di Chaosmose (Parigi, 1992). Nel testo questo soggetto occupa una piccol
issima parte; si tratta di una breve descrizione, di un solo paragrafo.
In realtà  questo soggetto mi interessava già da tempo; quindici anni fa un mio caro amico si è risvegliato, dopo un’iniezione praticatagli dal medico di famiglia, in un ospedale psichiatrico. Sono andato a visitarlo e insieme abbiamo fatto una lunga passeggiata nei giardini dell’ospedale. Mi ricorderò sempre di questa passeggiata. Ero molto giovane all’epoca e spinto dalla curiosità mi sono messo ad osservare gli altri cosiddetti “malati mentali”. Ben presto mi sono reso conto che anche loro mi guardavano con la stessa curiosità, si trattava di un’osservazione reciproca. L’esperienza di allora, la sensazione di osservare ed essere osservato allo stesso tempo in questo contesto così particolare, è rimasta profondamente impressa nella mia mente. Poi, una decina  d’anni fa, mi sono presentato come volontario per girare un video istituzionale sul ventesimo anniversario di un ospedale psichiatrico. Ho trascorso un po’ di tempo in quest’istituzione intervistando dei pazienti, parlando con i medici, scoprendo la struttura ed il modo di funzionamento dell’ospedale. Il brano di Guattari di cui ti parlavo ha agito come un catalizzatore componendo in un insieme tutte queste diverse esperienze.

Gli ospedali psichiatrici sono sempre filmati in maniera sinistra; il sistema è inumano, i pazienti vengono trattati male. Il tuo film è molto diverso da tutto ciò.
È vero! I film sugli ospedali psichiatrici sembrano costituire una sorta di “genere” a sé, proprio per questo ho cercato di evitare una rappresentazione usuale dei malati mentali. Non volevo che i miei attori si comportassero come dei “pazzi”, che fossero facilmente identificabili come tali attraverso una serie di reazioni  scontate. Evitando di mostrare la follia  in modo ovvio ho voluto coinvolgere in maniera più profonda lo spettatore lasciandogli un maggiore spazio d’interpretazione e di riflessione.

Il luogo che hai scelto per ambientare il film è molto suggestivo…
Forse quest’atmosfera così particolare proviene dal fatto che il luogo in cui abbiamo girato il film è un ospedale psichiatrico in disuso. Mi piaceva l’idea di ridare vita a questo posto, di risvegliare, attraverso le nostre attività, la sua memoria. Molti dei miei collaboratori si sentivano a disagio in questo posto abbandonato. Per me, al contrario The Island aveva un’aura di inerzia, serena, pacifica quasi rassicurante.

Nella prima sequenza di Here si assiste ad un evento che sembra provocare la crisi di follia del protagonista: He Zhiyuan sta guardando la televisione, sullo schermo passano le immagini di una manifestazione repressa dalle forze dell’ordine. Potresti spiegarmi di cosa si tratta?
Come ho già accennato Singapore è un paese molto piccolo, ma allo stesso tempo tecnologicamente molto avanzato per questo i meccanismi di controllo sono estremamente efficaci: in linea di principio non esistono né manifestazioni, né proteste di massa di alcun tipo. L’estratto che vediamo alla televisione fa eco alle notizie che il protagonista sta leggendo sul giornale. Si tratta di una manifestazione avvenuta a Bangkok. È un fatto reale: in Thailandia ci sono state delle proteste molto violente contro l’intenzione di un gruppo di società di Singapore di comprare l’intero sistema delle telecomunicazioni del paese. Volevo mostrare come tutta la violenza generata all’estero da queste speculazioni economiche torna, per un effetto di boomerang, a Singapore attraverso le immagini trasmesse dalla televisione e le notizie pubblicate sui giornali.

Pur optando per una descrizione a prima vista positiva e rassicurante dell’ambiente psichiatrico il tuo approccio non è per nulla ingenuo. La festa di addio, organizzata dal personale in onore di chi sta per lasciare l’ospedale, non è altro che un’ultima prova per verificare l’idoneità del malato a tornare in società. Dietro un’apparente benevolenza l’individuo “deviante” è scrutato in maniera spietata.
Il tipo di sistema messo in atto in The Island, l’ospedale psichiatrico del film, è  lo stesso tipo di sistema sociale che vige anche fuori dall’ospedale, nel mondo reale in cui vivo. In più di un senso Here è un film su Singapore. Nonostante il paese sia ufficialmente una democrazia questo tipo di sistema basato su dei meccanismi di controllo permanente fa parte della nostra vita quotidiana. Malgrado ciò la gente, sedotta dal benessere economico, non sembra farsi troppi problemi…

Here è dunque un film politico ?
Senza dubbio, anche se non lo è in modo esplicito: lo è in primo luogo per la natura stessa del suo soggetto ed in secondo luogo perché l’atto stesso di filmare, le decisioni che prendo sul modo di costruire una scena, di piazzare la cinepresa in un luogo piuttosto che in un altro rappresentano per me, in un certo senso, un atto politico.

In Here assistiamo ad una moltiplicazione del dispositivo cinematografico: davanti alla cinepresa reale un regista fittizio sta girando un documentario sull’ospedale e i dottori filmano a loro volta i pazienti. Perché questa scelta?
Mi interessava creare una sorta di fluidità in cui il punto di vista dello spettatore potesse spostarsi liberamente fra queste diverse cineprese a cui ti riferisci. Se non sbaglio Pasolini aveva detto che il film è un “discorso indiretto libero”; ho cercato di lavorare seguendo questa idea di fondo. D’altra parte sono stato influenzato anche dalla mia esperienza personale: durante le mie visite nei diversi ospedali psichiatrici ho visto spesso dei malati parlare con una persona immaginaria, così il documentarista della finzione, che peraltro non vedremo mai, potrebbe essere una specie di “spettro” percepito solo dai pazienti.

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