Difficile immaginare, per chi vive in Europa, lo statuto eccezionale di cui Alejandro Jodorovsky gode in America Latina: generazioni intere di registi e di artisti di ogni orizzonte lo venerano. Jodorovsky è al tempo stesso un nume tutelare indiscusso, fonte d’ispirazione artistica, maestro di vita, vate e sorgente di saggezza. Non sono stati in pochi a venire in pellegrinaggio fino a Parigi per incontrarlo e farsi leggere i Tarocchi in un caffè nei pressi della Bastiglia, dove Jodorovsky esercita la sua arte divinatoria una volta alla settimana.

Jodo, come lo chiamano gli amici, è uomo di teatro, mimo, attore, regista di un pugno di film culto, sceneggiatore del mitico fumetto L’Incal, autore di saggi e romanzi, poeta, pensatore, inventore della psicomagia, fondatore insieme ad Arrabal e Topor del gruppo azionista Panique, esperto di Tarocchi: la sua opera smisurata, proteiforme ed eclettica s’irradia ben oltre i confini dell’America Latina contando adepti, emulatori ed imitatori ovunque. Fra questi accoliti alcuni si sono fatti strada fino a Cannes rendendogli omaggio nei loro film: nel 2011 il regista bulgaro Kamen Kaled inaugurava The Island, presentato alla Quinzaine, con una sequenza in cui il protagonista si faceva leggere i Tarocchi dal maestro; quest’anno è stato il turno dell’ americano Frank Pavich con un documentario, Jodorovsky’s Dune sempre alla Quinzaine, e di Nicolas Winding Refn che ha gli dedicato il suo Only got forgives selezionato in concorso.

Con il suo film, La danza de la realidad, in programma alla Quinzaine, e due altre due pellicole che ne celebrano direttamente o indirettamente il genio, Jodorovsky è stato, senza alcun dubbio, il vero protagonista di questa 66esima edizione del festival di Cannes. Venuto a presentare La danza de la realidad alla ripresa della Quinzaine a Parigi, Jodorovsky si è trovato davanti ad una sala stracolma. Dall’alto dei suoi 84 anni, portati con un brio ed una vitalità sorprendente, quest’uomo così fuori dall’ordinario, ha letteralmente elettrizzato il pubblico con la sua forza vitale e la sua simpatia.

Spigliato e sorridente, istrione dall’innegabile carisma, Jodorovsky ha ripercorso le varie tappe della creazione del film, soffermandosi poi su alcuni aspetti fondamentali della sua visione del mondo in un discorso fiume farcito di aneddoti arguti.

Intenzioni di fondo

Parlando delle intenzioni che l’hanno spinta a creare La Danza de la realidad, Lei si serve di una formula molto bella: “ Ho voluto fare un film per guarire la mia anima, quella della mia famiglia e quella degli spettatori”….

Jodorovsky: Il cinema industriale cerca un pubblico che già esiste, ma quando si ama un cinema inteso come arte allora si deve creare il proprio pubblico; il pubblico da sé non farà mai questo passo, non bisogna illudersi, bisogna andare all’incontro del proprio pubblico.

Con La Danza de la realidad ho cercato di fare del cinema un’esperienza di vita per me stesso e per la mia famiglia ovviamente, ma anche per il pubblico con la speranza che quest’ultimo riesca ad entrare nell’universo del film, proiettandosi, riconoscendosi nella storia che racconto.

Ritorno a Tocopilla

Per fare il film Lei è ritornato, dopo moltissimo tempo, a Tocopilla in Cile, la città in cui è nato e dove ha passato i primi anni della sua vita. Che effetto Le ha fatto?

Jodorovsky: Filmare a Tocopilla ha significato per me immergermi di nuovo nella mia infanzia, rivedere il mio passato attraverso gli occhi del bambino che ero a quei tempi, in una visione surrealista di quello che si chiama realtà. Quanto si vede nel film non è una scenografia costruita a posta per le riprese: Tocopilla è veramente così, durante gli ultimi ottant’anni non è cambiata. La montagna è lì proprio a duecento metri dalla strada principale del paese, esattamente come l’avete vista nel film e gli attori sono gli abitanti del luogo. Ho camminato con le mie scarpe d’adultoesattamente nella stessa strada che avevo percorso da bambino. I negozi che vi si affacciano sono rimasti uguali come, per esempio, quello del barbiere giapponese; certo oggi è suo figlio a gestirlo, ma il locale è lo stesso… L’unica cosa che non esisteva più era il negozio di mio padre, distrutto da un incendio: l’ho fatto ricostruire esattamente com’era.

Le riprese a Tocopilla sono state meravigliose; la gente si è prestata al gioco con grande entusiasmo aiutandomi generosamente in ogni occasione; devo loro tantissimo. Per questo, in segno di affetto e riconoscenza, la prima cilena del film si terrà a Tocopilla e non a Santiago!

Impegno sociale

Guardando il modo in cui Lei filma Tocopilla – città-miniera emblematica dello sfruttamento capitalista – non si può fare a meno di rilevare l’importanza che l’impegno sociale ha sempre avuto nella sua opera, al di là dell’ aspetto metaforico, simbolico e metafisico che le è proprio…

Jodorovsky: Il primo evento importante per Tocopilla è stato quello della grande depressione del 1929 che ha precipitato il 70% della popolazione nella miseria più assoluta. Alle conseguenze della crisi bisogna aggiungere la presenza di una grande quantità di operai mutilati dalle esplosioni di dinamite nelle miniere; una volta feriti questi uomini venivano buttati per strada come degli animali, per sopportare tutto ciò si ubriacavano bevendo, in mancanza di meglio, dell’alcool a 90 gradi… So bene che tutto questo sembra surrealista, ma era veramente così. Lo stesso discorso vale anche per i metodi di tortura che si vedono nel film; non sono il frutto della mia immaginazione, sono esattamente le torture praticate in Cile ad un certo momento della storia. La rappresentazione dei nazisti nel film, invece, non è veritiera… (ride) ne faccio una parodia, ma, anche questa, è stata una scelta cosciente. In un certo senso non potevo fare altrimenti…..

Finanziamento del film, inizio

Com’è riuscito a finanziare la produzione del film?

Jodorovsky: Il finanziamento è stato un vero miracolo! Non avevo più fatto un film da più di vent’anni; il cinema è molto costoso e, senza soldi, purtroppo, non si è nulla! (ride) Per riuscire ad ottenere dei soldi, in linea di massima, bisogna essere come gli altri vogliono che tu sia… come nelle serie per la televisione dove il regista e lo sceneggiatore sono ormai stati sostituiti da un team composto da diverse persone che devono filmare e scrivere tutte allo stesso modo. Per me il cinema é l’opera di un poeta; questo genere di cinema  é, per definizione,  contro ogni logica commerciale. Film di questo tipo sono fatti a priori per perdere dei soldi! Potete immaginarvi un produttore entusiasta all’idea? Eppure questo è quanto, in un certo senso, ho sempre fatto io, presentando i miei progetti: “ Voglio fare
un film alla mia maniera, cioè un film fatto apposta per perdere dei soldi! Allora ci stai?!” (ride) Il miracolo per quanto riguarda il finanziamento di La danza de la realidad si chiama Pavich! Frank Pavich che aveva iniziato a fare un documentario su Dune, un mio progetto di film abbandonato, mi aveva chiesto se ero pronto a partecipare ad un’intervista insieme a Michel Seydoux, il produttore francese che nel 1975 aveva investito parecchi milioni di dollari nella fase preparatoria di Dune e che aveva finito per perderli tutti… In un primo tempo ho pensato che non sarebbe stato possibile, mi sono detto: “Mi deve odiare per avergli fatto perdere tutti quei soldi!”. Contrariamente ad ogni aspettativa Frank Pavich ha saputo tranquillizzarmi: “No, no, al contrario- mi ha detto- Seydoux sarebbe felice d’incontrarla di nuovo. Certo, pensa che il progetto di Dune sia stato una vera catastrofe ma, nonostante tutto, ha un buon ricordo di quel periodo!” Così mi sono lasciato convincere e, con una certa apprensione, mi sono presentato all’appuntamento… inspiegabilmente, mi sono trovato davanti ad una persona affabile che non nutriva più alcun rancore nei miei confronti e che, al contrario, mi diceva quanto avesse amato il progetto di Dune, nonostante tutto. Seydoux ed io parliamo per un bel po’, ad un certo punto gli dico: “Noi abbiamo ancora un accordo di vecchia data; dobbiamo ancora fare un film insieme!” E lui inaspettatamente mi risponde: “Si, si! Abbiamo un accordo! “ A questo punto colgo la palla al balzo e ribatto: “Avrei bisogno di due milioni di dollari per fare un film!” senza battere ciglio lui mi risponde: “Va bene!” Tutto questo è successo nel giro di cinque minuti, non potevo crederci, mi sarei quasi messo a piangere. (risata generale in sala)

Michel Seydoux è stato il primo a finanziare La Danza de la realidad, a lui si è venuto ad aggiungere un ragazzo messicano di 27 anni, Moisés Cosio, membro del consiglio di amministrazione di un Museo di arti figurative in Messico.  L’ho incontrato ad un vernissage,  ci siamo messi a chiacchierare e ad un certo punto, fra una cosa e l’altra, gli ho raccontato che mi mancava ancora un po’ più di un milione di dollari per montare il mio prossimo film, un film fatto alla mia maniera: cioè destinato ad essere un fiasco commerciale… Con mia grande sorpresa lui mi ha risposto: “Un milione? Te lo do io!”

Finanziamento del film, seconda parte…

A quel punto Lei aveva circa un 75% del finanziamento, cosa ha fatto in seguito? Come ha trovato il resto dei soldi?

Jodorovsky: In seguito ho ottenuto il sostegno di Javier Guerrero, un ragazzo cileno… La nostra relazione è iniziata in un modo molto singolare; di passaggio a Parigi, Javier aveva cercato di incontrami per farsi leggere i Tarocchi in un caffè vicino alla Bastiglia, Le Téméraire, dove per parecchi anni, una volta alla settimana, offrivo gratis a chi volesse, la lettura delle carte. Un pomeriggio, era già tardi, uno dei miei assistenti è venuto ad avvertirmi che c’era ancora un ragazzo ad aspettarmi, un giovane cileno che aveva l’aria di un barbone. Essendo ormai troppo stanco per accoglierlo ma provando della pena per lui metto una mano in tasca e cerco un biglietto da dieci, venti euro; per un effetto di “psicomagia” , pesco un biglietto da cento euro e glieli  faccio avere lo stesso. Molto tempo dopo ho scoperto che il ragazzo in questione era proprio lui!  (risate)

Quando gli ho raccontato che stavo preparando un film, Javier ha risposto con entusiasmo: “Allora faremo un film in Cile? Io posso metterci 200.000 dollari, sono tutte le mie economie! Lei – mi ha chiesto- ha la possibilità di fare un apporto personale?” “Si, si, gli ho risposto – è da vent’anni che sto mettendo dei soldi da parte per fare il mio prossimo film, fosse anche a cent’anni!”

Lui ha ribattuto : “Perfetto! Il Cile ci darà sicuramente il resto dei soldi e noi faremo il film!” . Ho scritto la sceneggiatura in Cile sperando in una sovvenzione dal governo Cileno, alla fine non ci hanno dato niente,  ma noi siamo riusciti a fare il film lo stresso…

Crowdfounding

Nei titoli di coda c’è un lunghissimo paragrafo dedicato ai donatori su Internet; in quali termini il film è stato co-prodotto anche da loro?

Jodorovsky: E’ stato uno dei miei figli ad avere quest’idea: visto che ho quasi 800.000 followers su Twitter si è detto che domandando solo un dollaro ad ognuno di loro avremmo potuto tranquillamente completare il finanziamento del film. Abbiamo ricevuto 40.000 dollari, cioè l’1% della somma necessaria per realizzare il film ma l’esistenza di questa somma, proveniente da persone che credono nel mio lavoro e vogliono sostenerlo, mi ha dato la forza di andare avanti ed il coraggio, per esempio, di chiedere i soldi a Seydoux. Alla fine ci siamo resi conto di non avere più bisogno di questi 40.000 dollari e li abbiamo restituiti, ma la mia gratitudine resta ed è per questo ci abbiamo tenuto a ringraziare ad una ad una tutte queste 900 persone che ci hanno generosamente voluto sostenere.

Quest’episodio mostra che c’è ancora della speranza per il cinema d’autore, anche se si tratta di una lotta di David contro Golia.

Preparazione e rirpeese

Come si sono svolte le cose in seguito?

Jodorovsky: Tutto si è svolto in modo ‘magico’, non sarei mai arrivato a montare questo film con la mia sola volontà; un insieme di condizioni propizie si sono venute a produrre affinché questo film potesse vedere la luce. Essere qui con La danza de la realidad mi sembra un vero miracolo! Al punto tale che potrei iniziare a credere in Dio! (risata generale)

La fase di preparazione è durata due mesi, bisognava fare in fretta, visto il nostro budget relativamente limitato. In seguito abbiamo girato in sole sette settimane, non potevamo permetterci neanche un giorno di più. Le rirpese si sono svolte nella più grande discrezione: nessun articolo sulla stampa, nessun making off, nessuna fotografia sul set, ad eccezione di un paio di foto ricordo scattate da mia moglie, nessun’intervista, nessuna promozione! La danza de la realidad si è fatto come un bambino, nell’oscurità! Dato che nessuno aveva visto il film fino a quel momento, siano arrivati a Cannes timorosi ed impauriti come delle vergini! (risate)

Tecnologia digitale

Nel film si notano delle piccole pennellate di digitale: com’è stato per Lei dovere lavorare con questo tipo di tecnologia?

Jodorovsky: è  stato geniale! Abbiamo filmato con una cinepresa digitale; certo non è stato molto comodo dover guardare in un monitor così piccolo ma, una volta raccolte le immagini, al montaggio mi sono veramente divertito soprattutto lavorando alla color correction. E’ stata una vera ‘orgia’ del colore; con Pascal, mia moglie, che è pittrice ci siamo sbizzarriti! Il digitale mi ha dato inoltre la possibilità di accentuare e d’ingrandire delle riprese a posteriori, una meraviglia!

Cast and credits

Scorrendo i nomi dell’equipe del film il cognome ‘Jodorovsky’ salta agli occhi più volte; Lei sembra avere coinvolto tutta la sua famiglia…  

Jodorovsky: Per me La danza de la realidad non è stato semplicemente un film; volevo che fosse una vera e propria esperienza di vita, un’esperienza capace di cambiarmi, di ampliare i limiti della mia mente attraverso un processo di “psicomagia” – una tecnica da me inventata – che include il confronto con la propria famiglia. Per questo nel film mio figlio Brontis interpreta mio padre e mio figlio Adan, che ha inoltre composto la musica, interpreta il ruolo di un giovane uomo politicamente engagé che finisce per suicidarsi, i costumi sono stati fatti da mia moglie Pascal ed il ruolo di me stesso da bimbo è interpretato dal mio nipotino. Per la mia famiglia il film è stato una vera ‘bomba’ psicologica… Per me stesso è stato un processo commovente e profondo, perché sono finalmente riuscito a riconciliarmi con mio padre e a realizzare i sogni di mia madre. Mia madre avrebbe voluto diventare cantante d’opera; non ha mai potuto farlo – mio nonno glielo aveva impedito a forza di colpi di bastone – ma io l’ho fatto per lei dandole nel film una seconda chance, delle nuove opportunità così come ho permesso a mio padre di cambiare la traiettoria della sua esistenza e di conquistare quell’umanità che gli è sempre mancata nella vita reale.

Perdono e guarigione

Ha detto di avere fatto questo film per guarire la sua anima; questo processo Le ha permesso di perdonare suo padre e di fare la pace con se stesso. Secondo Lei noi tutti dovremmo perdonare per potere guarire la nostra anima?

Jodorovsky: Per me perdonare non significa porgere l’altra guancia; per potere perdonare bisogna in primo luogo comprendere l’altro. Se i nostri genitori ci hanno ‘torturati’ è perché sono stati vittime dei propri genitori a loro volta. Per me il perdono è comprensione. In secondo luogo guarire l’anima non è un atto egoista, l’anima è un qualcosa di collettivo; se riesco a guarire la mia anima riesco per estensione a guarire anche quella degli altri. Jung ha concepito l’idea dell’inconscio collettivo; io invece credo nell’anima collettiva. Quando qualcosa non funziona nell’anima di un singolo questo si ripercuote sul pianeta intero; tutte le persone mediocri, spiritualmente mutilate finiscono per compiere delle azioni che capaci di mutilare anche gli altri.

L’uomo sta distruggendo il nostro pianeta perché la sua anima è addormentata da mille pregiudizi che l’impoveriscono: se aprissimo il nostro spirito, potremmo salvare la terra!

Mani tagliate, un simbolo ricorrente

Nell’insieme della sua filmografia il simbolo delle mani associato con la paura di perderle è un elemento ricorrente, una sorta di angoscia di castrazione costante. Qual è il suo significato?

Jodorovsky: Da un punto di vista psicologico le mani vengono sempre associate alla masturbazione, ma non è il mio caso! (ride)

Per me la masturbazione è un fenomeno normale; quello che invece ho sempre visto come ‘anormale’, come una sorta di castrazione é la circoncisione. Mi considero un bambino al quale è stato tolto abusivamente un pezzo di pelle; questo è un episodio che mostro espressamente nel film. Quando ero piccolo gli altri si burlavano di me a causa di questa differenza, più tardi mi rifiutavo di andare nelle docce collettive perché sapevo che tutti avrebbero puntato gli occhi sulla mia differenza; mentre gli atri ragazzini avevano una specie di supposta fra e gambe io avevo una specie di fungo! Questo mi ha fatto riflettere su molte cose: ho capito, per esempio, perché gli uomini portano la kippa sul capo; la kippa simbolizza il prepuzio che hanno perso! (risata generale)

Cinema, arte e distanziazione

Cos’è per Lei il cinema?

Jodorovsky: Di solito si pensa che il cinema sia un puro divertimento, un passatempo che ci ipnotizza, per me invece il cinema, il vero cinema, il cinema inteso come arte, deve mettere in atto – come Bertold Brecht lo faceva in teatro – una sorta di distanziazione.   Davanti allo schermo lo spettatore deve essere conscio di guardare un film, cioé un’opera d’arte: per questo in La danza de la realidad ci sono molti elementi che rimandano direttamente all’artificio della sua fattura. La scena della tortura del padre, brutale e realista, é sopportabile solo perché nella scena  precedente rappresento i nazisti in modo ridicolo e grottesco. Questa è una strategia di distanziazione; se lo spettatore riesce a guardare la scena della tortura, in sè per sè terrificante, è perché sa di trovarsi di fronte ad un oggetto artistico, un po’ come davanti ad un quadro terrificante di Goya, o a Guernica di Picasso…

Cinema cileno contemporaneo

Cosa ne pensa del cinema cileno attuale, alla luce dei successi internazionali di giovani registi come, per esempio, Larrain?

Jodorovsky: Sinceramente non ne penso proprio nulla! Io sono partito dal Cile prima di Allende e di Pinochet e sono ritornato quarant’anni dopo la caduta di Pinochet; non ho vissuto il dramma di tutta quest’epoca,  in un certo senso sono un po’ come un marziano in Cile! D’altra parte per me l’arte non può avere nessuna nazionalità; il cinema non è una squadra di calcio! Un bel film è un bel film, indipendentemente dalla sua origine.  Un film non dovrebbe rappresentare un paese ma l’anima umana!

Tre questioni fondamentali: nazionalità, religione, ego

Lei afferma spesso di essere apolide, di non avere una religione precisa e di non avere ego definito. Dove si situa veramente rispetto a queste tre questioni fondamentali?

Jodorovsky: Queste sono veramente delle questioni fondamentali! Ma un povero cineasta non è un filosofo! (ride) Definiamo in primo luogo il concetto di Ego: per me l’ego è un qualcosa di artificiale, è creato dalla famiglia, dalla società e dalla cultura. Alla nostra nascita, nel momento in cui usciamo dal ventre materno siamo tutti dei geni assoluti e totali, abbiamo dei miliardi di neuroni nel cervello e un potere infinito ma non sappiamo come utilizzarlo ed è per questo che lo riduciamo definendo quella che si chiama la nostra personalità ma  originariamente il nostro essere è libero ed indefinito! Ma per quanto mi riguarda io non ho un ego, ma una moltitudine di ego! L’ego è senza dubbio indissociabile dal nostro essere; normalmente dovrebbe piegarsi alla nostra volontà, ma in generale le cose accadono all’inverso e l’ego s’impone a noi un po’ come il cane che guida un cieco. Io invece il mio ego lo tengo sotto controllo: sono io che guido lui e non viceversa! E allora come definire il mio ego? Beh, direi che è simpatico! (risata generale)

Inoltre non ho età! Certo ho un’età fisica, esteriore con tutti i problemi di salute che ne derivano, ma nel mio intimo non ho età! Non dico di essere giovane perché non credo né alla gioventù, né alla vecchiaia; sono semplicemente senza età e per questo non voglio che mi si giudichi secondo la mia età anagrafica.

Tarantino dice che si può fare del cinema solo fino a quarant’anni, ma io continuo a farne anche adesso! Twitter è una cosa da giovani, eppure io, a 84 anni, ho ben 800.000 followers ! Allora tutte queste cose sono dell
e stupidaggini e per me non contano!

Non ho una nazionalità!

Riconosco certamente l’amore naturale dei popoli per il loro paese ma non quello degli uomini politici che amano nascondersi dietro il concetto di nazione; il loro è un amore ipocrita che mira solo al profitto. In questo senso la nazionalità è un’invenzione del sistema economico per sfruttare gli uomini e le bandiere nazionali non sono altro che dei pezzi di stoffa fatti per coprire della merce!

Non voglio neanche essere definito o giudicato secondo il mio sesso ma in quanto essere umano!  Di me si dice spesso : “Il est un touche à tout!”  non capisco perché l’uomo debba  per forza avere un’unica etichetta che lo definisce. No! Si può fare di tutto nella vita!

Infine: non credo ad alcun dio definito ma ad una potenza cosciente che crea l’universo; ma questo è misticismo,  non è religione!

Epilogo: Cannes, rapporto confidenziale

Vorrei infine confidarvi qualcosa a proposito del festival di Cannes: ero veramente entusiasta di essere alla Quinzaine con il mio film perché era il posto giusto per me ma Winding Refn, lui ha avuto diritto al tappeto rosso, al pubblico travestito da pinguino, ai fotografi e a tutto il resto… ci sono rimasto un po’ male, a dire il vero….

Comunque sia, Winding Refn non solo mi ha chiesto di accompagnarlo sul tappeto rosso la sera della presentazione ufficiale di Only God forgives ma ha fatto ancora di peggio: mi ha addirittura dedicato il suo film! (ride)

La scena sul tappeto rosso è stata veramente comica: io sono basso, mia moglie Pascal è ancora più bassa di me, accanto a Winding Refn ed a sua moglie facevamo la figura di due nani. Ad un certo punto, sempre sul tappeto rosso, mentre Winding Refn stava accogliendo la troupe del suo film, mia moglie ed io un po’ confusi, non sapendo esattamente cosa fare, abbiamo cominciato a salire la famosa scalinata per conto nostro e lì ci si è avvicinato un uomo coi capelli bianchi, magro e piccolo di statura come me: ci ha dato la mano dicendosi molto onorato di riceverci… Non potevo crederci!

Sapete chi era? Era proprio quel tipo che aveva rifiutato di prendere il mio film alla selezione ufficiale! (nota)

Ho sempre pensato che quando si dice del male degli altri e come se si gettasse una pietra verso l’infinito, bisogna fare attenzione perché questa pietra potrebbe ritornare e colpirti alla nuca… così anch’io sono stato cacciato dalla selezione ufficial,e ma poi ci sono ritornato, come la pietra!  (ride)

nota: Thierry Fremaux, delegato generale del festival.

Foto in b/N:  di Guillaume Lut (Quinzaine)

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