di Maria Giovanna Vagenas / Dopo l’accoglienza molto calorosa riservata in sala a Fai bei sogni, in occasione dell’inaugurazione della48esima edizione della Quinzaine des Réalisteurs, Marco Bellocchio, sorridente e cordiale, ha risposto alle domande della stampa, in un bel giardino soleggiato di  fronte alla Croisette.

Ci potrebbe parlare del soggetto di Fai bei sogni?

Al centro di Fai bei sogni, c’è un bambino, Massimo, che si rivolta, che si ribella alla morte incomprensibile della madre e non l’accetta, anche l’adolescente Massimo la nega e dice: “ Mia madre non è morta, è lontano”. Alla fine c’è è un Massimo adulto che vuole dimenticare, che vuole annullare questa perdita buttandosi nel lavoro. Finché nella sua attività di giornalista, in cui si realizza brillantemente, un giorno a Sarajevo un dettaglio, lo riporta improvvisamente a questa tragedia di cui ha paura, una paura panica, tanto da temere addirittura di morire di questo.  Però da lì, da questo panico Massimo in qualche modo reagisce e cerca di ricostruirsi finalmente una vita separata, indipendente dall’immagine tragica della mamma. Nel film c’é anche la rappresentazione di una madre estremamente vivace e semplice ma profondamente impaurita dai suoi problemi, dal suo destino.…..

Com’è riuscito a rendere la purezza dello sguardo d’amore che il bambino ha nei confronti della madre?

Direi che avevamo le idee chiare, poi abbiamo anche avuto la fortuna di scegliere il bambino giusto che era capace di comunicare tutto il suo affetto materno molto spontaneamente, in modo naturale senza dovere fare un training da Actor studios o da metodo Stanislavskij.

Non credo interamente alla fortuna però, in questo caso, penso veramente che sia stata un po’ anche la fortuna che ci ha aiutato a trovare Nicolò Cabras per incarnare Massimo da piccolo.  A questo bisogna, ovviamente, aggiungere la nostra capacità di capirlo e di comunicare con lui.  Un bambino non è un attore, l’attore si costruisce e si prepara, il bambino o è, o non è naturalmente adatto ad un ruolo. Noi vediamo in televisione soprattutto immagini di bambini completamente falsi, piagnucolanti, patetici, Nicolò invece è riuscito a rappresentare la sua ammirazione nei confronti della mamma, da solo, spontaneamente direi. Poi magari, quando diventerà più grande, farà un altro mestiere.  Comunque, in questo tipo di film, questa scelta è decisiva!

Cosa le è piaciuto nel romanzo di Massimo Gramellini dal quale ha adattato il film?

Mi é piaciuta la storia, perché la storia era la sua storia personale, la sua  infelicità, la sua disgrazia.   Mi è piaciuto il fatto che il protagonista vivesse con la madre e col padre e che questa madre fosse completamente dedicata a lui. Massimo era figlio unico e lei era una casalinga, una donna che non lavorava ma che aveva avuto in passato dei sogni; forse avrebbe voluto fare la cantante, forse l’attrice però, a 38 anni, opta per una scelta radicale ed ineluttabile.

A mio avviso questa donna soffriva di una depressione segreta, che non è citata nel libro, si sentiva tradita dalla vita. Nel libro mi ha attratto proprio questo grande amore della madre per il figlio, un amore che io personalmente non ho mai avuto nella mia vita, perché non ho mai avuto la fortuna di avere una madre così devota e così amorevole. Il personaggio di Massimo, dall’infanzia fino all’età adulta, è tutto costruito intorno al suo affetto profondo per la madre.

Visto che Lei non ha mai fatto l’esperienza di questo tipo di amore e che una storia così Lei non l’ha mai vissuta, come ha fatto per renderla sua?

Non l’ho vissuta con questa intensità (ride), però ho vissuto il clima della famiglia, il non-rapporto con la madre, il rapporto con i fratelli. Quella del film, certamente, non è una storia autobiografica però è una storia dove esiste tutta una serie di implicazioni che riguardano  l’autoritarismo del padre  e, in qualche modo, i sogni infranti della madre che poi si riversano sul bambino.  É proprio la ribellione del bambino di fronte a questa tragedia che mi ha incuriosito.

M’interessava sondare il tragitto di questo bambino che non accetta la morte della madre e che  progressivamente nel tempo si ‘addormenta’, in un certo qual modo, e s’inventa una vita fantastica impersonata appunto da Belfagor, un personaggio magico che può aiutarlo a sopravvivere a questa tragedia. Questi sono degli spunti che mi hanno sempre molto interessato, non solo in questo film ma in tanti altri miei lavori precedenti, ed é proprio partendo da qui che ho costruito il film.

Trovo molto interessante il modo in cui, dopo la tragica morte della madre, il padre cerca di avvicinarsi di nuovo al bimbo tramite il calcio. Ce ne potrebbe parlare?  

Questo era un tema molto presente nel libro, perché il padre dell’autore del libro era un grande tifoso del Torino.

C’era tutta una tradizione di tifosi del Torino legata anche a quella grande tragedia, molto italiana, della morte di tutta la squadra nel ‘49 quando l’aereo che trasportava l’intera squadra, di ritorno da una amichevole con il Benfica a Lisbona, andò ad infrangersi contro il muraglione posteriore della basilica di Superga. Nel film c’è appunto una scena in cui padre e figlio vanno a commemorare in loco questo tragico evento.

Il padre in fondo non è un cattivo padre, cerca è solo di distrarre, di occupare questo bambino, però non ha il coraggio di dire a suo figlio che sua mamma si é tolta la vita. Pur essendo laico decide di far annunciare la morte della mamma a un prete che, invece di parlare apertamente, occulta i fatti e consola Massimo, dicendogli  che sua mamma è ormai un angelo che lo guarda dal cielo. Massimo rimprovererà sempre al padre, che non andava mai in chiesa, il fatto di avere scelto proprio un prete per dirgli che sua mamma era morta.

Quali sono stati i criteri che hanno guidato Lei e i suoi co-scenaristi, nel processo di adattamento del libro?

Quello della sceneggiatura é stato un lavoro molto lungo, di fronte a un romanzo che parla di 40 anni di vita, di storia, proprio perché era necessario condensarlo in due ore  di cinema. Bisognava riuscire a scegliere le immagini più essenziali per raccontare questa storia.  Abbiamo dovuto tagliare tante cose ma abbiamo talvolta dovuto aggiungerne delle altre.  Per esempio la scena con Fabrizio Gifuni non esiste nel libro, anche Sarajevo è descritta in modo completamente diverso.  In fondo quello che m’interessava era vedere un bambino e poi un adolescente che non si arrende alla propria infelicità e che in qualche modo si ribella.

Ovviamente il bambino può ribellarsi solo con la fantasia, solo negando delle evidenze, l’adolescente continua a negare e a cercare il rapporto con la madre attraverso la fede, fa tre volte in una stessa mattinata l’eucarestia, anche l’adulto é in qualche modo un combattente anche se, in un certo senso, la sua professione di giornalista gli fa scegliere una realtà istantanea, una realtà in fondo superficiale, una realtà in cui lui si afferma che però nasconde al contempo la tragedia che lo ha colpito in passato. Solo il confronto con l’immagine di una madre morta a Sarajevo mentre il suo bimbo, non conscio della situazione, continua a giocare con un video –gioco accanto a lei, riesce a fare emergere di nuovo il suo trauma. Massimo percepisce inconsciamente in questo destino tragico, un fato simile al suo.  Di ritorno in Italia, quest’esperienza scatena in lui delle reazioni di angoscia, di panico intenso, tanto che pensa di essere in punto di morte.  

Al cinema è estremamente complicato passare  da un’epoca all’altra senza usare la tecnica classica del flashback , quello del film,  è stato un lavoro di elaborazione importante già al livello  di sceneggiatura, lavoro poi protrattosi sulle riprese e anche sul montaggio. Spero che alla fine, il corpo del film sia sufficientemente chiaro come racconto e non banale.

Poi insomma è chiaro che nei film bisogna operare una sintesi, i film non sono un romanzo di Dostoevskij che va avanti per 600 pagine!  Ecco, per sintesi noi siamo arrivati a questo risultato.

Nel film lei usa una grande quantità di estratti d’archivio della televisione italiana. Quali motivi l’hanno guidata nella scelta di questi materiali?

Nel film abbiamo utilizzato la televisione e gli archivi televisivi come rappresentazione della storia del nostro paese dentro la casa, in famiglia. Quegli anni possono essere considerati come il grande boom della televisione, ne parla anche Gramellini nel suo libro e parla anche di Belfagor, parla anche di altre trasmissioni, però noi abbiamo scelto proprio Belfagor per la dimensione fantastica che questo personaggio apporta alla vicenda.

Il bambino cerca di farsi aiutare da Belfagor, un personaggio che vedeva con la mamma alla televisione, per sopravvivere, per difendersi dalla solitudine. Belfagor diventa l’amico per eccellenza, diventa il protettore di Massimo.

Come ha coinvolto Berenice Bejo nel progetto e cosa cercava in lei per interpretare il personaggio di Elisa?

La risposta è semplice; non ci siamo limitati all’Italia, ma abbiamo cercato in Europa. A me interessava trovare un’attrice, con un volto ed un temperamento molto seducente ma anche piuttosto fermo, piuttosto duro. Il personaggio di Elisa, interpretato da Bérénice Bejo ha la capacità di sfondare le resistenze di Massimo proprio perché non ha un atteggiamento materno, ha una sua affettuosa durezza, non è mai assistenziale, non è mai protettivo. Questo è un approccio quasi terapeutico ed è l’unico che serve al personaggio di Massimo per rimettersi veramente in discussione.

Io ho cercato l’attrice partendo da queste esigenze.  Ci sarebbero certamente state delle attrici bravissime anche in Italia però avevo già visto Bérénice Bejo in alcuni film e mi era piaciuta, poi ci siamo incontrati e lei si è mostrata subito disposta ad interpretare questo ruolo parlando italiano. Questo è stato da parte sua un segno di grande professionalità che io ammiro molto, stimo profondamente l’attore che s’impegna, che lavora, che vuole arrivare a certi risultati.

Lei ha un suo “Belfagor”?     

No! Belfagor è stata una serie che non mi ha coinvolto particolarmente perché io ero già grande quando è uscito in Italia nella metà degli anni 60, insomma ero già un uomo che non vedeva molta televisione e non stavo in famiglia, ero già lontano. Nel contesto del film Belfagor mi è sembrato molto prezioso per raccontare la vita di orfano di Massimo che elegge un fantasma come suo protettore. Inoltre mi è sembrato che Belfagor calzasse perfettamente anche per la sua stessa storia, per il suo destino.

L’ha avuto da bambino?

Da bambino, non mi ricordo…. Beh, bisogna difendersi certo, sì la dimensione della fantasia o della fantasticheria è stata molto presente nella mia infanzia ma penso che questo valga per ogni bambino. La mia vita però è stata molto diversa da quella di Massimo perché io ho vissuto in una famiglia piena di follia ma numerosa, con molti figli, in cui io mi dovevo difendere dai miei fratelli.  Avevo molti nemici, non solo dei nemici interni, e proprio per questo – non a caso -il mio primo film, I pugni in tasca (1965),  nasce proprio dalla fantasticheria di un doppio omicidio: il protagonista uccide la madre e il fratello. La radice di un film è sempre una fantasticheria….

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