“Non siamo nient’altro che botti vuote in cui si sciacqua la storia del mondo”, scriveva Etty Hillesum. Steven Spielberg sarebbe sicuramente in grado di creare in poco tempo un biopic travolgente sulla vita della grande scrittrice olandese, ma ha sempre avuto un approccio molto più deterministico – diciamo così – sul rapporto di reciproco condizionamento tra l’uomo e il suo tempo. Nel caso roboante di Lincoln del resto il regista di Jurassic Park ha finito per cimentarsi con uno dei personaggi in assoluto più influenti di tutta la storia contemporanea, celebrandone prima di tutto l’epica e l’indefessa devozione per le forze del bene.

Assistendo ai 150 minuti dedicati al sedicesimo presidente degli Stati Uniti in ogni caso è impossibile non rimanere travolti dalla suggestione della mastodontica mole di potere che allora poteva concentrarsi nelle mani di un solo uomo di governo. Da un certo punto di vista è paradossale convenire su come, ora che un nero può salire alla Casa Bianca, siamo definitivamente entrati nell’era in cui nessun capo di stato – schiacciato da interessi finanziari ed economici sempre più soverchianti – potrà mai più avere un’incidenza simile.

La corruzione e il trasformismo nelle aule parlamentari però è sempre lo stesso e Spielberg ha l’indiscusso merito di tapparsi proprio in quelle stanze dove è più nera e oscura la trattativa politica filmando in modo quasi estenuante il lavorio dialettico di tutti quegli uomini che fecero il lavoro sporco per far passare il tredicesimo emendamento alla Costituzione Usa. Quello per far abolire la schiavitù. E’ emblematico che nelle prime inquadrature l’ottimo Daniel-Day Lewis appaia gigantesco, quasi moralmente superiore rispetto agli altri uomini, per poi confondersi e quasi dissolversi in mezzo alla folla al momento del discorso nella scena finale. Nel corso di tutto il film seguiamo come un’ombra tutti gli aspetti più oscuri della vita del presidente e soprattutto la sua strenua volontà a far passare la sua carica idealistica anche sopra a migliaia di vite umane.

Rispetto allo splendido Munich in Lincoln c’è un confronto meno serrato sull’ambiguità e la battaglia con la propria coscienza, ma c’è un encomiabile lavoro di trattazione sulla sacralità della parola. Il sedicesimo presidente degli Stati Uniti del resto rimarrà per sempre il più amato e forse il primo che incarnò lo spirito e la coscienza del giovane popolo statuniense.

Spielberg insiste ripetutamente sui dialoghi e i racconti estenuanti di Lincoln quasi a voler filmare il flusso di coscenza e le voci interiori del Presidente, in una trattazione didascalica che è quasi inedita per un kolossal del genere in costume. Peccato che tutto il resto, specie il punto di vista dei neri, rimanga fuori e che la stessa forza degli scontri dialettici in aula parlamentare non esploda mai o quantomeno non si assesti sulla spettacolare tradizione del cinema americano negli scenari dove prevale l’oratoria, ma insegua territori più sofisticati e meno d’impatto.

Il passo del film ha poi tutta la complessità e la forza che richiede il prestigio di un personaggio del genere. Spielberg, pur confrontandosi con il livello degli scandali e la corruzione che adoperò Lincoln per far valere la propria ragion di Stato sembra approvarli in nome della nobile causa che poi riuscirono a supportare. Il regista comunque lascia moltissime altre porte per elaborare numerose interpretazioni che vanno molto oltre la menzogna su cui si basa la libertà di facciata su cui si fondano gli Stati Uniti. Molto più rispetto anche a Gangs of New York, che vedeva sempre protagonista Daniel Day Lewis, riesce a modellare un’idea di cinema a servizio della storia più epica e al tempo stesso implacabile.

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