Tre amiche e una vecchia Cadillac sono le protagoniste di Quel che resta di mio marito, commedia americana divertente, ma con un sapore di rimando molto amaro. Jessica Lange, Kathy Bates, Joan Allen sono le bocche di fuoco messe a disposizione dal regista esordiente Christofer N. Rowley che interpretano tre donne cinquantenni le quali, in seguito alla morte del marito di Arvilla (J. Lange), decidono di compiere insieme un viaggio attraverso la California per portare le ceneri del defunto alla figlia, che pensa di ottenerle attraverso un meschino ricatto. Durante il viaggio Arvilla è combattuta perchè sa che la volontà del marito era quella di spargere le ceneri al vento, ma la prospettiva di perdere la casa (l’oggetto del ricatto) la induce ad accontentare la figliastra. Come spesso accade nei road movie, il viaggio diventa la metafora di un percorso morale e di un progressivo scandaglio interiore fino alla presa di coscienza che guiderà la protagonista verso una scelta di tipo idealista. I punti di forza del film sono essenzialmente due: le impeccabili interpretazioni del cast, con le tre attrici in primo piano e lo scenario naturale che fa da cornice alla storia. Il regista lascia sapientemente che questi due elementi abbiano un peso decisivo per la riuscita del film.

L’impianto scenografico naturale rimanda a una sconfinata filmografia di specifica origine americana ascrivibile a quel macrogenere definito genericamente “road movie”, ma restringendo il campo dei riferimenti e ipotizzando un ponte tematico con altri film, la reminiscenza più immediata (con tanto di citazione) riporta dritto dritto a Thelma e Louise (1991). Chi sono Arvilla, Margine e Carol se non le eroine di Ridley Scott vent’anni dopo? Quelle di oggi, come quelle di ieri, sono coinvolte in un viaggio che assumerà a poco a poco il significato simbolico nel quale si produce un’ironica,ma efficace reazione al perbenismo a stelle e strisce. Le tre amiche non sono guidate da un istinto sedizioso, non le insegue la polizia, non uccidono (nessuno parlerà di “femminismo criminale” come avvenne per il film di Scott) ma sono determinate a riconquistare ciò che fu negato alle altre due. Lo fanno prendendosi gioco dei valori più conservatori come il familismo, nel nome del quale vengono soppiantati e oscurati i sentimenti più autentici. Alla fine Arvilla, spalleggiata dalle altre due, non può far altro che realizzare la volontà dell’amato marito: prova a gabbare la figliastra, ma quando l’inganno viene scoperto Arvilla perderà la casa.

L’essenza profonda del film risiede in quella successione di eventi casuali e incontri imprevisti che pongono le tre donne di fronte a una serie di personaggi nei quali sembra dominare un senso di solitudine e di vulnerabilità esistenziale. Il ragazzo alla ricerca del padre e il camionista gentiluomo sono lo specchio di un’America dolente ma vitale, ferita ma non arrendevole. Temi come la morte, la solitudine, lo smarrimento esistenziale sono trattati con ironia e intelligenza. Il regista riesce nell’intento sottraendo peso e contrappuntando il tono amaro con momenti di commedia molto esilaranti grazie alla travolgente bravura delle tre interpreti (simpaticissima Kathy Bates). Inoltre, protagonista assoluto, si erge il paesaggio dell’ovest Americano con la sua capacità esclusiva di evocare quel senso di libertà agognato dai protagoisti.

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