Non è stato certo considerevole il fascino esercitato dalla prima guerra in Iraq per registi e sceneggiatori nel corso di questi anni. Conflitto atipico, durato una manciata di giorni, perlopiù risolto dall’imponente forza aerea angloamericana e dalla diserzione di massa delle forze occupanti del piccolo Kuwait, santuario di vitali giacimenti petroliferi per l’occidente.  Ora, mentre ancora quella terra è infuocata da una interminabile serie di attentati e ritorsioni da parte delle forze occupanti, Sam Mendes ha deciso di affrontare il delicato appuntamento con il film di guerra. Decide di entrare dentro le maglie della psicologia dei marines seguendone dapprincipio l’addestramento rigidissimo, imperniato su una serie massacranti prove fisiche e su una martellante azione di indottrinamento motivazionale. Il nostro testa di barattolo, il particolare tipo di marine che va sotto il nome di Jarhead, Jake Gyllenhaal, inizialmente porta con sé l’improprio Camus de Lo straniero, ma il radicale rifiuto di ogni forma di distruzione e assoggettamento contenuta nell’apologo non fa per lui. Il tenente Jamie Foxx, glielo getta nel cestino perché il giorno seguente inizia il vero e proprio indottrinamento ed allora bisogna scegliere da che parte stare. Anche se il volto da bravo ragazzo offerto alla causa dal nostro lascia sempre aperto un certo senso di straniamento rispetto all’ambiente circostante, pervaso sopratutto di invasati in cerca dell’agognato tatuaggio inferto sul polpaccio ai veri duri della compagnia, certo questa prima parte non riesce a catturare l’attenzione richiesta da una siffatta materia: troppo smaccato è il repertorio citazionistico traente la propria fonte dal sommo Full Metal Jacket di Kubrick, con i corridoi inquadrati con il grandangolo e gli scarponi necessariamente ben oliati, il sergente con il cranio rasato con la sua nenia insopportabile ma pervasiva, la musichetta spensierata ad aggiungere un tocco di ironia. Sembra di essere dalle parti di un calco, così radicalizzato è il debito da cui si è tratta ispirazione.

Con l’arrivo nel deserto si entra quantomeno nel vivo dell’ardito esperimento mendesiano: gli ardimentosi ragazzotti della provincia americana sperano almeno di poter mettere a frutto una parte del duro lavoro di addestramento. Si lavora sull’attesa di una missione che sembra non giungere mai, i supersonici bombardieri invisibili compiono il lavoro dei soldati più in fretta, meglio e senza rischi di dolorose perdite dal conturbante riflesso per l’incerta opinione pubblica occidentale.

Nella effettiva disomogeneità di un progetto così ambizioso sull’inanità delle giornate passate al fronte in un’attesa che lambisce in alcuni momenti quella del Deserto dei tartari di Buzzati, restano però alcune scene degne di nota. Come quella della proiezione del volo degli elicotteri in Apocalypse now accompagnato dalle note di Wagner, con l’incredibile esaltazione dei giovani mentre si sferrano i primi lanci di razzi contro le postazioni vietcong: ironicamente azzeccata è la scelta di Mendes da far interrompere la proiezione al momento di maggior successo di un attacco che si rivelerà ricco di perdite e ben poco intriso di gloria. O anche, nella medesima sala, della proiezione del Cacciatore che si rivela essere una luciferina confessione di tradimento da parte di una moglie rimasta in balia delle proprie voglie, mentre il marito turbato viene portato via dai commilitoni. Ma non bastano questi e pochi altri momenti azzeccati a rendere omogeneo un pur complesso e ardimentoso tentativo di costruire uno sguardo interamente in soggettiva sull’insensatezza della guerra.    

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