Pochi in Italia sanno cosa sia il cosiddetto “Auschwitz-Prozess”, noto anche come il processo di Francoforte, svoltosi tra il 1962 e il 1965. Pochi, a quanto pare, lo sanno anche in Germania. Il regista italo-tedesco Giulio Ricciarelli, classe 1965, anche attore e produttore con a suo attivo qualche cortometraggio, non lo sapeva neanche lui e ha deciso di documentarsi e poi di farne un film, che ha registrato un enorme successo di pubblico ed è candidato agli Oscar per il miglior film straniero. Il processo di Francoforte, che ha portato alla sbarra i membri delle SS che avevano prestato servizio ad Auschwitz, è stato la prima tappa del lunghissimo processo di rielaborazione del passato nazista da parte dello stato tedesco, inteso sia come autorità morale e giudiziaria che come insieme di singoli cittadini chiamati a rispondere delle loro responsabilità tra il 1933 e il 1945. È stato uno schiaffo in faccia alla Germania degli anni Cinquanta, che voleva godersi il trionfo calcistico a Berna nel 1954, il boom economico e il rock n’roll e che troppo presto aveva risolto il processo di denazificazione condannando di fatto pochi responsabili al processo di Norimberga e assolvendo tutti gli altri perché tutti colpevoli, nessun colpevole e come si può condannare una nazione intera? Era un regime di terrore, tutti hanno solo eseguito gli ordini, nessuno sapeva nulla. Negli anni cinquanta i ragazzi non hanno mai sentito nominare la parola Auschwitz, da tempo ormai per noi assunta a paradigma del male assoluto del Novecento. Il responsabile di questo processo di rielaborazione (lungo, lento e spaventoso come il termine tedesco per indicarlo, Vergangenheitsbewähltigung) è stato un ebreo fuggito dalla Germania all’epoca delle razziali ed emigrato in Danimarca, che ha poi voluto fortemente tornare in patria dove è diventato pubblico ministero. Un uomo giusto mosso non da vendetta ma prima di tutto da un impulso che si potrebbe definire educativo nei confronti di quello che continuava a considerare il suo popolo. Un personaggio di enorme portata storica e morale, punto di riferimento per il movimento studentesco e i registi del “Nuovo Cinema Tedesco”, cui è stato dedicato un centro di studi sull’Olocausto a Francoforte, recentemente il film austriaco Der Staat gegen Fritz Bauer e soprattutto l’appassionante documentario di Ilona Ziok Fritz Bauer/Death by Instalments presentato alla Berlinale 2010 (che ci ricorda, tra le altre cose, come Bauer sia morto in circostanze misteriose su cui non è mai stata fatta chiarezza). Conscio dei rischi, Ricciarelli ha deciso con buon senso di lasciare la figura di Bauer in filigrana, come una sorta di eminenza grigia, e di affidare il ruolo del protagonista all’unico personaggio inventato di tutta la sceneggiatura, un giovane procuratore onesto ma ingenuo, che incarna perfettamente la Germania spensierata dei Nachgeborene, i “nati dopo”, che non sapevano nulla e comunque erano troppo giovani per avere responsabilità dirette. Lo “Auschwitz-Prozess” è il processo ai responsabili del lager, che ha rivelato alla Germania “quanto l’uomo ha avuto animo di fare all’uomo”, per usare le parole di Primo Levi. Le deportazioni di massa, le crudeltà, il sadismo e lo sterminio che noi oggi ben conosciamo. Tra gli accusati, in contumacia, aleggia minacciosa la figura di Mengele, che come un fantasma va e viene dalla Germania, sempre misteriosamente protetto da forze oscure e che diviene una vera e propria ossessione per il protagonista. Ma non è quello il punto, spiega il procuratore Bauer al suo giovane collaboratore, dobbiamo considerare la questione in un altro modo, ovvero che tutta la Germania era Mengele allora. Il labirinto del silenzio , dove in tedesco la parola silenzio è legata al verbo “tacere” per sottolinearne la condizione “attiva”, forte di precisi e affascinanti fatti storici, non può non appassionare lo spettatore ignaro dei suddetti avvenimenti. È una vicenda avvincente, che ha costituito uno dei pochi momenti di confronto della Germania recente con se stessa (così come durante il processo ad Eichmann), sospendendo l’amnesia o gli alibi, e che rappresenta una gradita eccezione rispetto al clima vittimistico, riconciliatorio e autoassolutorio circa i rapporti tra ebrei e tedeschi che caratterizza invece la cinematografia nazionale dopo la caduta del muro. La pellicola risente, tuttavia, di quella che è una delle pecche maggiori del cinema tedesco contemporaneo (con poche eccezioni) ovvero un’estetica di stampo fortemente televisivo in cui la regia, pur nella sua accuratezza, è assolutamente subordinata alla sceneggiatura, che a sua volta scorre perfettamente nei binari della sua prevedibilità (quantomeno per chi i fatti li conosce già). La società tedesca dell’epoca, appare bozzettistica, sopra le righe, quasi caricaturale nei suoi inserti legati alla vita quotidiana, precisi e prevedibili contrappunti alla vicenda giudiziaria che si fonde con il percorso di presa di coscienza del giovane procuratore, con tutti i suoi altrettanto prevedibili dubbi, rinunce, convinzioni fino alla vittoriosa entrata nell’aula giudiziaria. Uno dei meriti, comunque, è quello di aver rispettato lo spirito di Bauer nel volersi misurare con la questione soprattutto da un punto di vista legislativo, evitando con pudore la retorica sensazionalistica di tanti “Holocaust-film”(ebbene sì, è diventato un genere negli anni ’90). Lasciandoci indovinare l’orrore delle testimonianze dei sopravvissuti, che ormai ben conosciamo, dai volti impietriti di chi per la prima volta raccoglieva i loro racconti.

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2 commenti su “Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli

  1. tutta la vicenda è appassionante ed è quasi incredibile la rimozione tentata. E anche se la visione è depurata dall’orrore attraverso i filtri di stampo televisivo, è vero che i volti impietriti dei testimoni e dei sopravvissuti restituiscono l’angoscia e la forza dell’impatto tremendo sulle coscienze che la conoscenza ha provocato e provoca rinnovandosi

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