di Fabrizio Croce/Uno sguardo, un sorriso è il titolo di un vecchio film di Ken Loach che, attraverso una storia d’amore e di disagio sociale nella Sheffield dei primi anno ’80, raccontava l’ingresso dell’Inghilterra nel terribile decennio di recessione e disgregazione sotto il  segno della signora di ferro Margaret Thatcher ( “La medicina è cattiva, ma il paziente ne ha bisogno”  le fanno dire in un brutto e agiografico film sulla sua vita). Proprio all’indomani della morte nell’oblio dell’Alzheimer per l’odiato ex Primo ministro  il buon Ken suggerì di privatizzarne il funerale mettendolo all’asta:  una battuta dettata non da un cinismo disilluso o un sarcasmo fuori luogo ma da una posizione coerente e assoluta oltre le parole di circostanza che in caso di scomparsa fanno diventare nemici storici e giurati avversari “rispettabili”.

Ma al di là di chi fisicamente ha occupato l’indirizzo di Downing Street negli ultimi trent’anni ì, Loach ha sempre raccontato le iniquità e le ingiustizie talvolta barbare dei vari governi, incluso quello laburista, contro il proletariato operaio,  e ha documentato,  indignato e costernato, l’espansione del buco nero di povertà e precarietà che ha inghiottito anche la piccola e media borghesia.

Potremmo dire che alcuni dei suoi più folgoranti e potenti atti d’accusa e di resistenza come Piovono pietre (un disoccupato costretto a fare  debiti con uno strozzino per pagare la prima comunione della figlia) e Ladybird, Ladybird (una madre indigente a cui gli assistenti sociali strappano letteralmente dalla braccia i figli concepiti con un profugo cileno) sono esplosi in un periodo, gli anni ’90, per molti decadente autocelebrazione della cenere dei valori del decennio precedente o sublimazione nel citazionismo e nella contaminazione post moderni fino alla sterilità, posteriore a quello thatcheriano , esprimendo, senza mezzi termini o reticenze, il disastro contingente e  reale dell’eredità lasciata da quell’idea di politica, con gli sguardi e i sorrisi che hanno lasciato il posto a occhiate fameliche e a smorfie di disperazione.

piovono-pietre-1993

Il cinema di Loach, così vivo e attaccato ai corpi e ai volti imperfetti e scalfiti dei suoi attori/non attori (ai tempi in cui usci Piovono pietre lessi una recensione su Cineforum che sottolineava il particolare delle unghie sporche delle mani del protagonista), ha cercato di raccontare anche qualcosa di diverso e di più della condizione di uomini e donne sopraffatti e schiacciati dallo smantellamento dello stato sociale o dall’impossibilità di riqualificarsi in un mondo del lavoro precario e non flessibile: c’è lo spazio per un brivido melo’ in quel bacio pieno di tenerezza e sensualità tra  l’ex alcolizzato e disoccupato Peter Mullan e l’assistente sociale che ne cura le ferite psichiche ed emotive in My name is Joe e c’è lo sguardo intriso di compassione e vitalità su un’adolescenza deprivata da  violenza e aridità suburbana ma ostinatamente alla ricerca del mare dell’Antoine Doinel truffautiano in Sweet Sixteen; hanno avuto un respiro più ampio, a livello temporale e spaziale, le digressioni nel passato delle guerre fratricide all’interno del Partito Comunista nella campagna spagnola contro la dittatura franchista in Terra e libertà o tra gli indipendentisti irlandesi, la frangia di rivoluzionari più estremista  e quella disposta a trattare con il nemico Inglese, ne il vento che accarezza l’erba, in cui il pathos è amplificato dal fatto che gli esponenti delle polarità in contrasto sono due fratelli. E come lo specchio della vita, nel cinema di Loach c’è stato anche il riflesso dell’ironia, dello sberleffo e, in qualche modo, della leggerezza,  certo non  proveniente dalla spensieratezza della  superficie, ma quella di un galleggiante che offre l’opportunità di non annegare: uno spazio di immaginazione e creatività, la possibilità di trasformare il proprio idolo, il calciatore/attore Cantona, nel personal trainer di una vita schiacciata da un deprimente e squallido realismo(Il mio amico Eric), oppure il guizzo di organizzare una rocambolesca e improbabile truffa come il furto di una preziosa botte di Whisky da parte di una scombinata combriccola di disgraziati virati per una volta in comico e non in tragedia(La parte degli angeli).

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Il cinema di Ken Loach ha declinato l’atto etico di prendere e poi di mantenere una posizione in un’estetica che è rimasta  fedele alla linea, ma in questa fedeltà si è permesso la libertà di far alzare la testa e lo sguardo alle sue persone/personaggi e di dare loro una dignità e un’umanità davvero bigger  than life, sicuramente più grande delle regole e delle situazioni in cui vengono imprigionati dalle istituzioni che applicano il loro potere con l’ottuso e meccanico strumento della burocrazia, del labirinto di leggi, procedure e pratiche,  regni di carta, di parole e funzionari anonimi non innalzati al rango di metafore kafkiane ma presentati nell’insensatezza e nell’abuso.

 I, Daniel Blake, fin dal titolo assertivo e risoluto, capovolge come non mai il rapporto di forza con un sistema di assistenza sociale, a sua volta messo in atto da un governo  mal intenzionato a inviare un messaggio di pressione e sgombero ai nuovi e sempre più numerosi poveri, e impone la figura di un falegname malato di cuore che rifiuta il gioco al massacro e il circolo vizioso di uno Stato che prima gli nega l’indennità per malattia e poi lo costringe a cercare e rifiutare lavori per poter avere il sussidio di disoccupazione: Loach  fa di Daniel e di quell’ “Io”  la coscienza critica di questo sistema e ne denuncia l’assurdità e la disumanità, con una tenacia, una mitezza e una tale convinzione di essere nel giusto  da escludere qualsiasi ombra o contraddizione sul suo volto invecchiato e provato ma limpido e fiero, fino a una sorta di laica santificazione finale dove una sommessa e lucida dichiarazione (Sono un cittadino, niente di più e niente di meno) si carica altresì della rivendicazione di Giustizia e di Verità che tutti i personaggi dell’incorreggibile Ken hanno perseguito  e che ora qui viene manifestata senza se e senza ma.

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Sicuramente il cinema contemporaneo offre percorsi più complessi e aperti a maggiori spazi di riflessione ed evocazione sulla realtà, si pensi al cinema performativo dei Dardenne , ad esempio Due giorni, una notte con Marion Cotillard che all’interno di un tempo e uno spazio precisi si scontra/confronta con il senso di solidarietà,di paura o di ostilità dei suoi colleghi di lavoro,  e dell’ultimo Mungiu di Un padre, una figlia dove il protagonista,  convinto di fare la cosa giusta in una realtà  percepita come ostile e minacciosa, si perde, metaforicamente e letteralmente , in una boscaglia di dubbi e disorientamento, dove quello che accade travolge e ribalta ogni certezza, internamente ed esternamente.

Ken Loach e Daniel Blake, con cui, se non tutto il suo corpus cinematografico possiamo identificare l’idea di un cinema Ideologico , romantico e fuori dal tempo ( “Datemi un pezzo di terra e vi costruirò una casa, ma non sono nemmeno com’è fatto un computer”  dice Daniel con spirito naif alle insensibili impiegate con la faccia da arpie che gli intimano di seguire procedure on-line) rimangono imperturbabili, rocciosi baluardi di una visione che denuncia come dovrebbero andare le cose invece di provare a comprendere come stanno andando e magari suggerire, anche per contrasto o sottrazione, un ‘alternativa o una scelta differente:  rimaniamo nella dicotomia tra burocrati dotati in gran misura di anonima e indifferente crudeltà e martiri del proletariato con cui simpatizzare, visto che qui c’è pure una madre sola con due figli piccoli che vive in una catapecchia, ruba gli assorbenti al supermarket e si prostituisce per comprare cibo e vestiario alla sua prole, e nell’immancabile picco melo’ si prende il monito, pur compassionevole, di Daniel che si finge un cliente per dissuaderla e restituirle la dignità perduta di donna e di genitore.

Detto questo, non si riesce a provare un reale fastidio davanti a Daniel/Ken , sarà pure per la scelta molto azzeccata della faccia sbarazzina e furbetta di Dave Johns, non a caso un  comico inglese, che, a parte forse nel crescendo finale, evita il rischio del patetico o del ruffiano, puntando maggiormente su un’umanissima e calda empatia.

E si esce dal cinema colmi di tenerezza  e anche gratitudine, di uno sguardo e di un sorriso per tanta nobiltà d’animo, prima di immergersi nuovamente in una realtà frammentata e disgregante, dove si fa molta più fatica a pronunciare quella parola: IO.

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One thought on “Io, Daniel Blake- Ken Loach, il suo cinema

  1. Grandissimo FabFab! Di sicuro anderò..e tra i citati raccomando Piovono Pietre (per chi già non abbia; e Riff Raff!).
    Una foresta di stimoli (o di simboli), anche per intelletti non superiori e degni di Nobel, basta e avanza per sentirsi deboli e sperduti. Una consapevole (auto)ironia forse solo può aiutare. La via performativa, quella narrativa, quella speculativa certo aiutano (a conoscere in meglio il reale, in bene e in male).
    Ricomplimentoni!

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