[****] – La cifra narrativa di un regista è specchio dell’ego di ciascun essere umano: difficile se non impossibile discuterla o metterla in gioco, sperimentando nuovi possibili percorsi a ciò che definisce l’IO. La commedia di Ken Loach, seppur semplice da un punto di vista cinematografico e narrativo, possiede la forza di tale capacità. Il mio amico Eric è in primo luogo, infatti, un film nato da un’idea dell’ex calciatore del Manchester United, Éric Cantona, che ne è anche attore e co-produttore, trasformata dallo sceneggiatore Paul Laverty e realizzata da Ken Loach, ma è anche e soprattutto, un film che difficilmente non si sarebbe potuto attribuire al regista de La canzone di Carla, Terra e libertà, per non parlare del Vento che accarezza l’erba e In questo mondo libero, dove l’impegno sociale e la tragicità storico-esistenziale della condizione umana, lasciano l’amaro in bocca.

Parlando di Ken Loach non si può prescindere da quell’engagement, come lo chiamavano gli Esistenzialisti francesi, che è il respiro della sua arte, ma come ha dichiarato lui stesso: “Ho pensato che fosse finalmente arrivato il momento di realizzare un film che facesse sorridere”. Il mio amico Eric è proprio quella che potrebbe definirsi una “commedia pensante” alla Woody Allen o come alcuni hanno scritto alla Frank Capra: si sorride dalla prima all’ultima scena, si ride in alcune sequenze e non si smette mai di partecipare col cuore e la mente a quella che, come nella migliore tradizione di Loach, è comunque e sempre una lotta sociale.
Si fa politica esattamente come si sceglie: sempre, anche quando si tace. E se in questo film è muta la vena più tragica dei ceti sfruttati, sempre viva resta la consapevolezza di Loach che “la commedia non è altro che una tragedia a lieto fine”.I protagonisti del film sono due omonimi: Eric Bishop, un postino di mezza età dalla vita affettiva fallimentare, alle prese con i figliastri lasciatigli in eredità dalla seconda moglie, e dal ruolo di nonno per la figlia nata dal primo matrimonio, con una donna mai realmente dimenticata, e l’ex-calciatore Éric Cantona, alla cui immagine in un poster attaccato nella sua stanza, si rivolge il postino e che improvvisamente si materializza dandogli pratici consigli di vita, attraversati dalla beffarda ironia che ha caratterizzato anche il Cantona sportivo che tutti abbiamo conosciuto. Il surreale si intreccia così al reale creando un effetto di straniamento e di comicità, che nulla però toglie alla lucidità con la quale Loach ci racconta i disagi interiori di un uomo, la sofferenza dell’incomunicabilità con i figli, i soprusi del potere (uno dei ragazzi è coinvolto da un boss del quartiere in affari poco puliti che ricadono su Eric Bishop), ma anche la forza dell’amicizia e l’altro lato del calcio come espressione di una comunità, esperienza di amicizia e solidarietà, non solo sfogo alla violenza e oppio dei popoli.

Se si pensa che a  salvare la classe operaia sarà proprio, paradossalmente, uno dei giocatori più arroganti e pagati, ma anche più amati degli ultimi anni, egli stesso auto-ironico e sfrontato quanto basta a dare l’ultimo tocco di genio al film, si può capire l’applauso spontaneo del pubblico al termine della visione. Per una volta la traduzione italiana del titolo del film ha un suo perché contenutistico, mettendo l’accento sull’amicizia e su ciò che ne costituisce l’essenza, esattamente come per l’opera di Loach: la condivisione. E proprio Cantona parlando al suo amico postino, confessa che l’azione più bella che ricorda della sua carriera di calciatore non è un goal, ma la possibilità offerta ad un compagno, di realizzarlo.

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