Da ormai quasi due anni, Simone Cristicchi, cantautore romano dai molteplici talenti, sta portando in turneé  Li Romani in Russia un monologo teatrale ricavato da uno struggente poema in dialetto romanesco di Elia Marcelli, che lo storico Marcello Teodonio ha adattato per il palcoscenico rispettandone la struttura metrica in ottave romanesche e di cui Alessandro Benvenuti ha curato la regia.

Marcelli rievoca, attraverso il racconto in prima persona della propria esperienza di soldato romano di un plotone della fanteria che venne spedita nell’infausta e sanguinosa campagna di Russia, uno degli episodi più dolorosi e vergognosi della Seconda Guerra Mondiale, l’espressione forse più emblematica delle sconsiderate mire espansionistiche di Mussolini e della violenta macchina propagandistica alimentata dal regime fascista.

L’interesse per quel particolare, tormentato periodo della nostra Storia ha suscitato in Cristicchi il desiderio di andare alla ricerca delle storie delle persone che hanno vissuto sulla propria pelle le conseguenze dell’occupazione nazi-fascista, raccogliendole dalla loro voce viva e accostando  al tour teatrale una viaggio dentro la  memoria che arde ancora sotto la brace del tempo.

Queste storie sono state raccolte in un libro, Mio nonno è morto in guerra, uscito a ridosso del debutto de Li Romani in Russia al Teatro della Cometa di Roma, dove rimarrà in scena fino al 1 aprile. Per parlare di questi due progetti abbiamo incontrato Simone Cristicchi in teatro, tra una replica e l’altra.

Puoi raccontarci il rapporto che c’è tra l’esperienza della turneè teatrale e la realizzazione del libro Mio nonno è morto in guerra?

Elia Marcelli nel capitolo Er compleanno parla del testamento che lascia ai proprio cari, ai posteri diceno “Io non ho niente da lasciarvi, vi lascio la mia storia, la mia verità”. Prendendo spunto dalla riflessione che suscitano queste parole, ho deciso di andare a ricercare il testamento degli ultimi sopravissuti, degli ultimi reduci. Quello  che mi commuove è il fatto che queste voci stanno scomparendo, ma al tempo stesso mi sento felice di essere riuscito a raccogliere queste ultime testimonianze sul filo di lana. E c’è una precisa volontà nel salvare con nome e cognome ogni storia citando tutti quelli che hanno scelto di raccontare nei ringraziamenti finali del libro.

Uno degli aspetti fondamentali di questa ricerca è rappresentato sicuramente dal viaggio e dall’incontro. Puoi raccontarci cosa ti resta di quest’esperienza?

La cosa che mi resta sono le ore passate ad ascoltare le persone parlare, un’attesa che potremmo paragonare a quella del pescatore, che trascorre anche un’ora o due a guardare il galleggiante ed ad aspettare che il pesce abbocchi. Era come se ci fosse un fiume immenso di parole, di aneddoti, di storie, che ovviamente tornavano a galla nel momento in cui la memoria, sollecitata, andava a risvegliarsi. Di conseguenza io aspettavo, stavo lì in attesa che uscisse l’aneddoto preciso che interessava a me… molte storie ovviamente si somigliavano, in particolare quelle che appartengono a chi era  bambino durante il periodo dei bombardamenti, ma in ognuna di loro c’era un aspetto che mi colpiva. Ad esempio nel racconto intitolato Le sagome c’è questa immagine  dei due corpi dei soldati tedeschi uccisi e sepolti dagli americani, un particolare fortemente legato all’attimo e al luogo in cui quella persona stava rievocando quella storia. Magari in un altro momento e in un altro luogo avrebbe ricordato un dettaglio diverso.

Il libro è propio questo: la fotografia del momento in cui è stata raccontata ogni particolare storia

Sia nel monologo teatrale che nel libro, pur nella specificità dei rispettivi linguaggi, c’è un rispetto profondo per lo spirito dei personaggi e i contenuti che portano, evitando il rischio del virtuosismo stilistico.

Non c’era motivo di fare virtuosismi, non ho mai considerato questi argomenti uno strumento per fare sfoggio della mia bravura, non avrebbe avuto senso, sarebbe stato superfluo. Credo che le storie così come sono state scritte bastino a se stesse, non era necessario enfatizzarle o drammatizzarle, anche nel testo teatrale di Elia Marcelli c’è una carica di verità, una potenza espressiva che non ha bisogno di essere ulteriormente arricchita.

Anche nello spettacolo teatrale che realizzerò da Mio nonno è morto in guerra manterrò un’essenzialità nella rappresentazione, come ho fatto durante i reading di presentazione nelle librerie e nelle biblioteche: ci sarà solo un pianoforte e probabilmente  neanche il leggio perchè potrebbe creare una distanza con il pubblico.

Ci sono degli interpreti a cui ti rifai per quanto riguardo il monologo di impegno civile?

Ho rivisto ultimamente il Vajont di Marco Paolini e lo considero una vetta insuperata di teatro di narrazione, anche se credo che Li Romani in Russia si allontani in parte da quell’idea. Potremmo più precisamente definirlo teatro di rivelazione: un percorso per cui attraverso il racconto si arriva allo svelamento di un fatto storico e, spingendoci più in là con una definizione che accomuna Alessandro Benvenuti, il regista dello spettacolo, a  Giorgio Gaber,  teatro di evocazione in quanto il testo di partenza è più vicino alla poesia che alla prosa. In questo senso anch’io mi sento più vicino alla figura del cantastorie medioevale, un personaggio appunto che evocava  gli avvenimenti storici attraverso un linguaggio poetico, evitando la catalogazione dei fatti o una sterile citazione di dati, ma facendo leva sulla partecipazione emotiva.

Secondo te quali sono gli strumenti più efficaci per poter preservare il valore della memoria?

Oggi esistono vari strumenti che ognuno di noi può scegliersi per costruire la propia memoria: ci sono Youtube, Facebook, ma c’anche la banca della memoria da cui ho attinto per scrivere quattro delle storie contenute nel mio libro. Comunque  la memoria è un patrimonio prezioso su cui a volte è facile imbastire dei discorsi retorici. Io ad esempio se voglio raccontare gli esuli dell’Istria preferisco sempre la fonte orale perchè è attraverso il racconto in prima persona che posso percepire l’emozione, sicuramente l’aspetto che più mi interessa.

Questo ricerca può passare anche attraverso gli oggetti che appartengo alla memoria di chi è vissuto. Recentemente sono stato a Trieste e ho visitato il Magazzino 18, dove sono contenuti duemila metri cubi di masserizie appartenute al popolo istriano in fuga dalla feroce dittatura di Tito. Ecco, quello è un luogo della memoria, è come Auschwitz.

Oltre al discorso di preservare e trasmettere la memoria, quale altro aspetto ti ha conquistato nel portare in scena
lo spettacolo e raccogliere le storie per il libro? 

L’aspetto emozionale rappresenta sicuramente l’elemento fondamentale per poter coinvolgere le persone, in particolare le generazioni più giovani, altrimenti sarebbe tutto molto freddo, asettico. Lo storico Gianni Oliva, che ha scritto la prefazione del libro, ha capito il mio spirito: quello di fermare dei momenti di vita vissuta e raccontare una storia altra rispetto a quella che si può trovare nei trattati o nei testi scolastici. Da una parte c’è la sensazione di aver compiuto un’operazione importante salvando queste storie dall’oblio, dall’altra c’è una sete di emozione che va al di là della ricerca della memoria e della Storia stessa. Di conseguenza, privilegiando l’’emozione, ho voluto dare a questo libro una forma di racconti brevi per indirizzarli proprio ad un pubblico di ragazzi perchè non venissero raccontati soltanto tra chi già li conosceva. Questo accade anche con il linguaggio dello spettacolo, me ne sono reso conto durante i matineé con gli adolescenti: basta un minuto e sono catapultati immediatamente in caserma, catturati dalla storia di quel piccolo soldato come magari non lo sarebbero mai da una lezione di Storia o da una conferenza, durante le quali si distraggono parlottando o mandando messaggi con il telefonino.

Ho trovato un valore quasi cinematografico nei racconti, restiuire l’idea di un mondo partendo dalla forza delle immagini…

Mio zio di 85 anni è riuscito a darmi un’immagine: “Io ho visto i partigiani, erano alti, grossi, con dei grandi cappotti e il mitra in spalla”. Allora mi sono immedesimato nel punto di vista di un ragazzino che li vedeva come dei giganti anche se non era detto che lo fossero davvero. Ed è da questa immagine che sono partito per costruire il racconto La vacanza, aggiungendo anche una serie di elementi che lui non mi ha detto, ma che erano contenuti dentro quell’immagine, dietro al mondo infantile di chi vedeva queste persone come degli alieni scesi in terra, degli esseri sporchi di fango, alti come i fusti degli alberi.

Perche la scelta di raccontare degli aneddoti individuali per raccontare la Storia?

Inizialmente, avevo pensato di partire più dall’idea dell’indagine giornalistica, ma poi mi sono reso conto che era difficile trovare, ad esempio, qualcuno che dichiarasse apertamente di essere stato fascista. Così ho deciso di concentrare la mia attenzione maggiormente sugli aneddoti, sui particolari in modo da evitare di cadere nel condizionamento ideologico e dare una visione quanto più complessa delle realtà di cui vado a parlare. In fondo è quello che ho sempre fatto, anche quando sono andato a parlare con i minatori di Santa Fiora che mi dicevano di quanto fosse orribile il lavoro in miniera, ma al tempo stesso che quel lavoro era l’unica fonte di sopravvivenza… anche in queste storie c’è il soldato tedesco che fa finta di non vedere e permette al prigioniero italiano di scappare, insomma non c’è il bianco e il nero dell’ideologia.

Dall’altronde, ripeto, il gesto a volte è in grado di raccontare una situazione meglio di una dissertazione intellettuale, come la storia di Ti regalerò un rosa, che riesce a far capire nella maniera più efficace il funzionamento del sistema manicomio.

Qual è stata la lezione che hai tratto da queste esperienze di vita che hai raccolto e raccontato?

Filippo Tommaso Marinetti  sosteneva che “La guerra è l’igiene dell’umanità”: questo mi fa pensare quanto la Storia sia servita a creare una coscienza comune. Se oggi vai a dire a quei ragazzi che si tatuano la svastica o la croce celtica sul braccio che le donne durante il fascismo non potevano votare, ti accorgi che non sanno cosa risponderti. Io devo ringraziare la mia curiosità, la mia attitudine alla ricerca che mi ha permesso di trovare i gioielli nascosti dentro la roccia per poi trasmetterli alle generazioni successive, come l’invito che faccio ai miei figli nella dedica all’inizio del libro, quello di costruire un mondo senza la parola guerra.

Per il resto non so dirti se ho acquisito o meno una particolare saggezza, non ho trovato grandi risposte su come vivere, sono un ragazzo di 35 anni. Sicuramente non credo in quella che possiamo definire la cultura del buon cortigiano, il sapere di un po’ di tutto, ma non sapere bene niente. Io non so manovrare le luci di una console, non so dirti com’è fatto tecnicamente un microfono. Non so costruire una chitarra. Però so farla  suonare.

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