Amore, morte e paradossi vanno da sempre a braccetto nel cinema balcanico, come una salsa agrodolce di ironica comprensione del mondo per alleviare, sostenere e tenere ad una salutare distanza anche i dolori più atroci.

Love and other crimes (Ljubav i drugi zlocini) di Stefan Arsenijevic, presentato oggi nella sezione Panorama della Berlinale ad un pubblico divertito e commosso, accetta l’insegnamento e si muove con disincantata saggezza nei territori del disagio quotidiano di Nuova Belgrado, cadente periferia di palazzoni di cemento armato.
In un luogo dove il futuro sta per arrivare sotto forma di centro commerciale, è un giorno particolare per il piccolo ricettatore Milutin, proprietario di un solarium semivuoto, padre di una adolescente autistica e compagno di Anica, bella, bionda e un po’ appassita.

Per Anica, quel giorno è ancora più importante, perché è stanca della sua vita sentimentale e delle poche prospettive del domani, e ha deciso che quella sera stessa ruberà la cassa del solarium e fuggirà via per sempre. Nel grande salto, che la donna sta preparando ormai da un po’, Anica non è sola: il giovane vicino Stanislav, da anni innamorato di lei, vuole seguirla, amarla e adorarla, trovare un vero lavoro, diverso dal riscuotere il pizzo per Milutin, magari in un locale svizzero, come prestigiatore. In quell’ultimo giorno, Anica si toglierà parecchi sassolini dalle scarpe, mentre Milutin, malato terminale, finge con rassegnazione di non sapere nulla della sua imminente fuga e tutto assume un valore ancora più forte, perché l’ultimo pasto ha sempre un sapore speciale.

Il finale, non è quello che si immagina. E con la risata lieve, che rimane quasi in gola, di una piccola esistenza di quartiere che somiglia sin troppo a quella di un villaggio, la disperazione cammina sempre a braccetto. Ma non vince mai, per quel sano senso, tutto jugoslavo, di accettazione del destino, quale esso sia — perché ogni cosa va come deve, perché il passato non torna neanche quando lo si va a trovare a casa con un mazzo di rose, perché in fondo niente dura per sempre, ma spesso neanche solo un po’.

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