Nel secondo giorno del primo weekend di festival, segnato, come ogni anno, da una grande folla di curiosi — berlinesi e turisti — per le strade attorno a Potsdamer Platz, è stato presentato fuori concorso Fireflies in the garden di Dennis Lee.  Il film, curiosamente, ricorda un altro titolo (in concorso) proiettato ieri, Gardens of the night di Damian Harris, simile, oltre che per i mediocri risultati, per la comune matrice (gli Stati Uniti).

Fireflies in the garden è l’esemplare più tipico (anzi, tipicamente medio) di tutta una letteratura di “film americani da festival, categoria fuori concorso”: film non indipendenti (né di genere trash né di genere sundance), non mainstream grassi di star, non d’autore e nemmeno spettacolari: un genere a sé, mesto, pudico e onesto come la middle class che, di solito, pretende di rappresentare. Le regole di appartenenza al ristretto (ma non ristrettissimo, essendo la medietà prima delle conditio sine qua non) gruppo, sono codificate come la commedia dell’arte e tenute sotto chiave da rampanti avvocati (di ceto non medio) dentro poderosi contratti protetti da trademark.

La primissima di esse, che Lee recita come un preghiera prima di andare a dormire, è l’ambientazione: famiglia di middle class, al più di media borghesia di provincia, liberale e vagamente abbiente, magari con qualche rapporto, anche alla lontana, con l’intellettuale New York. Dato il contesto, Lee inserisce da manuale i personaggi principali: una donna, affranta ma comprensiva, il grande motore della casa; un giovane uomo, lasciato dalla moglie, schiacciato da un padre-padrone, fragile e tormentato (ma nel fondo dell’anima), con il condimento di qualche straziante incubo notturno; uno o più bambini, imperativamente WASP, saputelli, simpatici e dai grandi occhi azzurro-cielo che brillano mentre giocano a baseball nel giardinetto dietro casa.

Nel cuore grande di quest’America dei Valori (che non è un partito, ma giù di lì), con la famiglia divisa ma unita al centro, è necessario però che si apra uno squarcio: dicasi la scomparsa di uno dei cari, indiscutibilmente figlio/a o (come in questo caso) un genitore, possibilmente, come la statistica impone, in un incidente d’auto — se poi c’è qualche cameo di star (qui Julia Roberts e Willem Dafoe) – una fotografia pulita e dai bellissimi colori autunnali, metà del film è fatto.

Tutto il resto, dice la matematica euclidea, è facilmente deducibile con le variazioni minime del caso: 27 minuti dedicati ai ricordi (leggi flashback), 4 ad una scena di sesso assai controllata (vedi la ex-moglie), 3 al funerale, 15 al dolore.
Tutti insieme, sotto lo stesso tetto, legati dal dolore; se capita, qualche pranzo, e sulla tavola i grandi piatti della tradizione; pochi, misurati gesti d’amore, nessuno slancio plateale su una sceneggiatura di ferro, rigida come un appendiabiti ikea — e tanta noia, scolastica ma composta, di troupe, attori, pubblico e critica.
Mentre, spettatore dopo spettatore, la platea si assottiglia, senza moti di stizza, senza ansie per il finale. Hollywood ha fatto il suo dovere, consegnato senza ritardi il suo onesto pacco festivaliero: la messa è finita, andate in pace.

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