Difficile non rimanere spiazzati, ma positivamente sorpresi dopo la visione di un film come La classe (Entre les murs) di Laurent Cantet, Palma d’oro a Cannes 2008. Difficile soprattutto se si è insegnanti e se realtà simili a quelle descritte da Cantet, fatti i dovuti distinguo, le si hanno perfettamente chiare ed impellenti.

Chi scrive insegna in una scuola primaria di Roma con una considerevole presenza multietnica, e spesso ha partecipato a scambi forse un po’ meno accesi di quelli degli studenti del ventesimo arrondissement di Parigi, ma che in piccolo focalizzano vissuti analoghi a quelli dei giovani personaggi raccontati dal film.

Impossibile dunque non avvertire tutta una serie di sollecitazioni che il quasi-documentario di Cantet è riuscito a cogliere con occhio attento alle mutazioni di una società complessa: i giovani e il loro rapporto con la cultura, le istituzioni e il problematico engagement dei loro insegnanti. Aggiungiamo che i ragazzi del Collège Françoise Dolto di Parigi sono figli di immigrati e vedono nell’insegnamento delle poesie di Rimbaud o nell’uso dei nomi propri “occidentali” in un eserciziario di grammatica, l’aggressione di una cultura che si vuole imporre per riassorbire tutte le altre.

Partendo da questi elementi, lungi da un cinema ideologico o fazioso, Cantet  costruisce un discorso attuale, ma non intellettuale, che spinge lo spettatore a riflettere più che a schierarsi: che sfide pone alla scuola il multiculturalismo? Che presa ha oggi una scuola legata essenzialmente all’idea di nazione? Che cosa, dunque può/deve offrire l’istruzione: strumentalità o stimoli che diano a tutti la possibilità di emanciparsi da una condizione svantaggiata? E infine che relazione ha la scuola con il mondo-di-fuori e quanto è in grado di uscire da un’ottica di anacronistica dispensatrice di false illusioni? L’immagine che si porta dietro è oramai quella di una baionetta che deve affrontare un carro armato e, assolutamente impreparata ad affrontare la contemporaneità, abbandona a se stessi gli insegnanti che, sempre più bersagli, si barcamenano tra le proprie difficoltà e il buon senso.

In centoventotto minuti, La classe mostra tutto ciò senza uscire mai dalle mura scolastiche, in uno stile cinema-verità che riflette la realtà come un saggio antropologico, con tempi dilatati fuori da qualsiasi rappresentazione convenzionale o poetica del racconto filmico. Come in un gioco di specchi coglie la concretezza dei personaggi dando la possibilità allo spettatore di viverli prima che di capirli. Tant’è che i vari Souleymane, Khumba, Sandra, Wey, gli adolescenti presenti nella storia, sono in realtà usciti fuori da un laboratorio durato dodici mesi che il regista, insieme al protagonista-professore-attore-interprete di se stesso, ha contribuito non tanto a ricostruire quanto a rievocare attraverso l’esperienza cinematografica. Le situazioni che si ripetono o insistono su particolari che sembrano inessenziali (le interminabili discussioni tra professore e alunni sul significato ambiguo dei termini, i botta e risposta insolenti, le provocazioni e i giochi di potere) afferrano una realtà nel momento in cui accade, nella sua fluida dinamica.

Entre les murs ha il merito e il pregio di essere riuscito quasi ad azzerare la distanza tra il reale e la sua rappresentazione restituendoci il senso del mutamento di un mondo nei suoi connotati più profondi. E per chi ha vissuto i termini della questione e annaspa nella ricerca di soluzioni, un film del genere, senza tesi né proposte, ma che dona espressione umanissima all’incertezza dei protagonisti, risulta confortante: le cose sono là e malgrado i nostri sforzi (come in una delle scene finali che mostra la classe vuota, l’ultimo giorno di scuola) non riusciamo ad afferrarle.

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