A Roma, pochi giorni dopo la Liberazione, in una sala degli uffici dell’attuale Ministero delle Attività Produttive, in via Veneto 33, l'avventurosa storia del cinema italiano visse una pagina cruciale. Intorno a un tavolo c’erano il capitano della US Army Pilade Levi, l’ex assistente di Alexander Korda Stephen Pallos, Alfredo Guarini, Alfredo Proja e l’ammiraglio Stone: si  riunivano i vertici del Film Board, organo militare del governo alleato, e i vertici di ciò che restava dell’industria cinematografica italiana. Con calma, l’ammiraglio Stone, in veste di presidente, spiegò a Guarini e Proja che “il cosiddetto cinema italiano, essendo stato inventato dai fascisti, deve essere soppresso. E con esso, quindi, devono essere distrutti tutti gli strumenti che hanno contribuito a questa invenzione. Tutti, compresa Cinecittà. Non c’è mai stata un’industria del cinema in Italia, non ci sono mai stati degli industriali del cinema. Del resto l’Italia è un paese agricolo, che bisogno ha di un’industria del cinema?”.

Se il regista e produttore Alfredo Guarini, in veste di rappresentante dei lavoratori dello spettacolo, e come delegato di partiti e movimenti clandestini (PCI, PSI, Partito d’Azione e Movimento dei Cattolici Comunisti) che si riunivano poco più in là, in via del Traforo 133, fu il primo alleato del cinema italiano, gli esercenti, associatisi nell’AGIS, furono, compatti, i primi alleati delle major americane. Dopo oltre sei anni di embargo,  gli industriali americani puntavano a rovesciare il monopolio, a inondare le sale con un fiume di pellicola di sicuro gradimento per il libero ed ebbro pubblico italiano; e gli esercenti, opportunamente, contavano su questi noleggi a costo zero per risanare le loro acciaccatissime aziende.

Una partita a quattro. Uno, i produttori, associatisi nell’Anic, la futura Anica, in cerca di garanzie per i capitali investiti; due, i lavoratori in cerca di produzioni; tre, gli esercenti in cerca di pellicole altamente commerciali; quattro, i noleggiatori quasi imparziali. Arbitro: il Film Board alleato, di emanazione e nomine militari, i cui vertici, a guerra finita, continueranno più o meno tutti, americani e inglesi, ad occuparsi degli interessi economici stranieri nel mercato cinematografico italiano. La disputa, con in ballo la sopravvivenza o la scomparsa del cinema italiano, tirò avanti fino alla fine della guerra: ebbe come unico intento comune e condiviso l’abrogazione di tutta la legislazione fascista in materia di cinema, mentre gli interessi economici americani, preponderanti, soverchiavano tutti gli altri. La montagna partorì il topolino solo nel febbraio 1946: venne dichiarata libera la produzione e la distribuzione dei film stranieri; fu abolito ogni dazio e ogni contingentamento. Ma in tema di censura vigevano ancora i regi decreti.

Golpe fallito insomma: tempo scaduto per le major. L’Italia libera, e di lì a poco repubblicana, aveva già istituito la figura politica che sarà il fulcro del salvataggio e della rinascita del nostro cinema: il Sottosegretariato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega allo spettacolo. Primo detentore ne fu l’avvocato Libonati, liberale; il secondo l’avvocato Arpesani, liberale; terzo l’onorevole Cappa, democristiano. La quarta nomina, su segnalazione del responsabile degli universitari cattolici tale monsignor Montini, futuro Paolo VI, toccò ad un giovane ventottenne romano, un ex dipendente dell'ufficio per le tasse sui celibi riparato in Vaticano durante l'occupazione nazista di Roma, il quale rimase in carica dal  3 giugno 1947 fino ad all’agosto del 1953: Giulio Andreotti, democristiano.

L'operato di G.A. (cosí si firmava nei dattiloscritti) come sottosegretario di De Gasperi con delega al cinema lo si può riassumere in due soli numeri: 27 e 170. 27 furono i film prodotti nel travagliatissimo 1945 di Roma città aperta, 170 quelli prodotti e distribuiti nel 1953. Andreotti padre della rinascita del cinema italiano, allora? Per fortuna degli storici del cinema il lavoro del futuro divo Giulio, al netto delle certezze dei numeri e degli introiti, fu comunque infinitamente più complesso, fatto com'era di leggi e leggine ricche di sfumature linguistiche, di sottili e puntuali circolari ministeriali, di dichiarazioni aperte e prudenti che celavano un operato ferreo e restauratore. La sinistra lo vedeva come il fumo negli occhi; il Film Daily, of course, lo definì nefasto; lo storico leader della CGIL unitaria Giuseppe Di Vittorio vi collaborò.

Il giovane Giulio colmò da subito il vuoto della propria inesperienza circondandosi di uomini del regime, vecchie volpi provenienti dal MinCulPop, primo fra tutti quel Nicola De Pirro, ex squadrista e sciarpa littoria, esperto annusatore di soggetti e trattamenti, che ebbe la nomina di Direttore Generale dello Spettacolo; poi De Tomasi a capo della commissione tecnica di valutazione (leggasi: censura); infine Eitel Monaco come presidente degli industriali, preciso lo stesso mandato che Monaco ebbe da Mussolini. Andreotti giovinastro prudente e ambizioso dovette risolvere una vertenza complicatissima: dare al cinema italiano concrete possibilità di sviluppo, farlo secondo gli indirizzi centristi e senza inimicarsi i favori degli industriali americani. I vantaggi ministeriali, sottoforma di premi erariali, premi di qualità e garanzie distributive, assicurati ai produttori per farli tornare “a girare”, non si sarebbero mai potuti materializzare senza l’inerzia degli esercenti, divenuti improvvisamente docili “grazie” ad anni di denunce pendenti a loro carico, quella per la mancata programmazione obbligatoria dei film nazionali, ammassate negli archivi del ministero e mai girate alle prefetture. Ma fondamentale, per la redazione e l'emanazione della legge quadro sul cinema, fu la benevolenza delle major americane che, esauriti i fondi di magazzino accumulati negli anni del monopolio, accampavano diritti solo sulle produzioni correnti.

La legge Andreotti sul cinema del dicembre 1949, ispirata, nei meccanismi di salvaguardia del cinema nazionale, a quella del 1938 (legge Alfieri), fu varata nel contesto di una industria nazionale particolarmente debole e lasciava un ampio margine discrezionale alla maggioranza di governo, favorendo l'arbitrio della politica su prestiti e premi. Abolita la parola "censura" e fatto divieto dalla costituzione di valutare le sceneggiature, toccava ai "comitati tecnici" (di nomine politiche) del ministero e della BNL valutare, in base al soggetto, la nazionalità e l'ammissibilità dei film ai finanziamenti, ai premi di qualità, alla programmazione obbligatoria. E l’Anica suggerì ai propri associati di favorire spontaneamente la sceneggiatura “al fine del buon andamento delle pratiche”. La tassa sul doppiaggio divenne “prestito obbligatorio in cambio di buoni”, mentre il divieto di esportazione di valuta costrinse la MGM, nel 1951, a reinvestire in Italia parte dei suoi incassi: con essi girò Quo Vadis? a Cinecittà, produzione che secondo il Presidente “fece per Roma più del piano Marshall”.

La politica andreottiana risollevò nuovamente il fatturato dell'industria nostrana incrementando esponenzialmente le pro
duzioni annue, ma portò, contestualmente, ad un irrigidimento culturale cui i produttori (incredibilmente sostenuti da tutti i lavoratori dello spettacolo, in una spontanea alleanza tra padroni e operai che non ha uguali in quegli anni) porsero la loro tacita acquiescenza in cambio di tutele sui profitti. Vittima eccellente di queste dinamiche fu il cinema del Neorealismo, prima strage di Stato della Repubblica, con i libri di Luigi Chiarini, Cinema quinto potere, e quello di Mino Argentieri e Ivano Cipriani, Censura e autocensura, che enumerano casi palesi di censura ideologica. D'altra parte, Andreotti in persona ebbe una condotta alterna: nego' il visto all'esportazione di Ladri di biciclette ma si spese per far sbarcare in America i film di Rossellini, il regista italiano più osteggiato dalla Legion of Decency; salvò il film di Germi Gioventù perduta e quello di Luigi Zampa Anni difficili. Ma non si oppose, più tardi, quando Germi incapperà ancora nella censura con Il cammino della speranza, al taglio di alcune scene sulla polizia. A Mario Soldati bloccò il progetto di un film, Bandiera rossa, prodotto da Carlo Ponti, sulla Fiat occupata nel 1919, mentre a Giuseppe De Santis impedì di girare, nonostante la protezione di Peppino Amato, Donne proibite, pellicola firmata e filmata dieci anni dopo dallo stesso Amato. Roma ore 11 invece la spuntò senza tagli ma fu boicottato in distribuzione. E quando nel febbraio del ‘52 pubblicò su Libertas la famosa lettera con le critiche a Umberto D., il grande Vittorio lo ringraziò pubblicamente e ironicamente.

Andreotti padrone del cinema italiano, allora?  Il senator Giulio, democristiano, fu un politico. Un bravo politico. Se la rinascita del cinema italiano fu la morte del suo Rinascimento, l’intero processo deve essere letto nell’ottica del quadro storico di allora: degli accordi di pace di una guerra che abbiamo perso, dell'influenza/sudditanza atlantica sull’Italia, della Guerra Fredda. Il cinema fu la più politicizzata delle industrie, una polarizzazione e una spartizione nella quale la DC possedeva i soldi e il PCI le comparse. Un equilibrio precario a proficuo che fu oggetto di feroci polemiche ma che non fu mai  messo veramentein discussione. A De Santis che si lamentava per il trattamento riservato al suo Roma ore 11, Togliatti rispose: “Hai ragione. Ma adesso, per un po’, stattene tranquillo; cerca d’immaginare dei film d’amore, vedi di farti perdonare questa cosa…” 

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