Un piccolo consiglio per un festival a corto di fantasia: istituire un premio alla peggiore strategia di promozione di un film straniero in Italia. Riconoscimenti al trailer più dannoso, al titolo italiano meno efficace, premio speciale della giuria alla più tagliente mannaia del doppiaggio. Potrebbe  chiamarsi Remare contro Film Festival o Sputare nel piatto in cui si mangia Awards o ancora Festival cinematografico del Darsi la zappa sui piedi. Ovvio che il film candidato dovrebbe avere per contrasto qualche effettivo motivo di interesse. Si eviterebbe così un super lavoro al comitato di selezione. Mi permetta in questo caso, caro direttore del su-immaginato festival, di raccomandarle la candidatura di Be Kind Rewind. La verità è che, a guardare lo sminuente trailer, e se non ritenessimo Michel Gondry meritevole di un’ampia riserva di fiducia,  avremmo potuto immaginare l’ultima fatica dell’eterno enfant prodige collocata su un terreno scivoloso e digradante verso l’insulsaggine men che demenziale alla American Pie.  

Be Kind Rewind da noi diventa, con un brivido, Gli acchiappafilm. Già, proprio così.
Non vorrei incontrarlo sulla mia strada questo efferato, perverso intitolatore seriale. O magari il colpo di genio è il prodotto collettivo di un moderno brainstorming, dove chi la spara più grossa ottiene il pacco natalizio aziendale. Ad ogni modo, Gli acchiappafilm, pesante appendice italiana al leggiadro titolo originale – Be Kind Rewind è il nome della videoteca al centro della vicenda e corrisponde al nostro “si prega di riavvolgere”, l’avvertenza che risaltava sulle vhs da noleggio – non dà una mano a sollevare il profilo già fiacco delle attese.
D'altronde, gli oscuri creativi addetti alla traduzione dei titoli dei film stranieri, noti dadaisti involontari della lingua, pare si accaniscano in modo particolarmente  subdolo contro il povero Gondry, regalandoci perle di vacua stravaganza del calibro di Se mi lasci ti cancello – titolo originale il poetico Eternal Sunshine of a Spotless Mind – o inspiegabili riadattamenti come è il caso di L’arte del sogno in vece del più confacente La science des rêves.

Viste le premesse, pare doveroso rendere giustizia all’ultima scoppiettante macchina delle meraviglie assemblata come sempre con materiali di recupero dal nostro Michel: una commedia che spicca il volo sulle ali di una comicità slapstick venata di lirismo surrealista.
Prima di approdare al cinema Michel Gondry si era fatto notare per il suo stile personale, come ingegnoso  autore di video musicali, coccolato da pop/rock star di mezzo mondo. Chi vi scrive non fa parte dello stuolo di ammiratori del videoclip indie-chic patinato di scuola MTV. Se il rock deve essere impatto e immediatezza, molto meglio la ripresa tal quale di un concerto live, scarnificata e ruvidamente punk, piuttosto che gli artefatti depotenziati di una costruzione a posteriori. Ciò malgrado bisogna riconoscere al giovane Gondry, la qualità di aver saputo svecchiare il  conformismo del linguaggio video-musicale anni ’90 grazie a una felice combinazione di ironia  dissacratoria, sperimentazioni videoartistiche e romanticismo retrò.
La calda qualità analogica e low-fi degli effetti speciali nei video e poi nel cinema di Gondry, la fotografia ipercromatica da fumetto underground, la carica inventiva delle sue messe in scena, le manipolazioni sulla consecutio narrativa in chiave antinaturalistica, si inscrivono in una progettualità di stampo quasi neo-luddista.
La natura creativa del gioco celebra il suo trionfo sull’autoritarismo di una tecnica oppressiva e reificante, in cui l’uomo è sbriciolato nei meccanismi di un potere gerarchizzato, condannato a un quotidiano grigiore di noia e banalità, in ultima analisi, all’infelicità (andatevi a ripescare il disturbante e sempre più attuale A L’envers a l’endroit diretto da Gondry per i Noir Desir, altro che i fannulloni di Brunetta). Se la tecnica disumanizzata siede sul banco degli imputati, è però l’intera società dello spettacolo ad essere in odore di favoreggiamento, con il suo caleidoscopio di immagini che insinua uno stato di abbondanza fittizia, prima che la monotonia delle immagini consumate prenda di nuovo il sopravvento.  

Proprio in questi giorni mi è capitato di rispolverare un volumetto scritto nel 1967 dal filosofo belga Raul Vaneigem, che è stato assieme a Debord, uno dei teorici del Situazionismo: il Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni (Malatempora, Roma 1999) sostiene la lotta per una soggettività liberata come estensione del dominio della lotta di classe. Qualche passaggio illuminante: “Noi non vogliamo un mondo dove la garanzia di non morire di fame si scambia contro il rischio di morire di noia.” E ancora “Una stessa energia estorta al lavoratore durante le sue ore di fabbrica o le sue ore di svago fa girare le turbine del potere”.
Se l’immaginazione non sembra ahimé destinata ad andare al potere, almeno per il momento, sembra riflettere Gondry, è tuttavia vitale riaffermare la natura liberatoria del  potere dell’immaginazione. Giocare diventa così l’estremo atto di resistenza, per un’ecologia dell’immaginazione svincolata sia dal giogo utilitaristico della produttività che dalla compulsività seriale al consumo.

Anche per i personaggi di Be Kind Rewind è una questione di resistenza: alla piccola videoteca gestita dal vecchio Mr. Fletcher assieme al figlio adottivo Mike gli affari non vanno bene, quasi più nessuno è interessato a noleggiare polverose vhs quando al centro commerciale all’altro lato della strada l’intero  catalogo è già disponibile nello scintillante formato dvd. Come se non bastasse il negozio si trova in un fabbricato storico, dichiarato inagibile dalle teste di legno del municipio che vorrebbero demolirlo per cavarci la solita speculazione. Questo, nonostante giri voce che nello stesso stabile abbia avuto i natali Fats Waller leggendario pianista jazz afroamericano e motivo d’orgoglio per Fletcher e l’intero quartiere. Ma gli affari sono affari e nulla parrebbe impedire l’imminente sfratto se qualcosa di apparentemente disastroso non ponesse le premesse per una clamorosa controffensiva: la smagnetizzazione accidentale di tutte le cassette presenti nel negozio – sulla cui causa non svelerò nulla, trattandosi sicuramente della trovata più pazza e geniale del film.


Se tutto il cinema delle major sembra di colpo azzerato e ridotto al rumore bianco, la sola possibilità per i gestori del negozio di non scontentare i pochi clienti ancora affezionati è quella di girare ex-novo con mezzi di fortuna i remake dei titoli più richiesti, reincidendoli direttamente sui nastri originali. E’ qui che la fantasia di Gondry può scatenarsi in una girandola di effetti speciali arrangiati, camuffamen
ti e marchingegni, illusioni e trovate degne del miglior Ed Wood.
Ghostbusters, 2001 odissea nello spazio, Terminator, A spasso con Daisy, film culto degli ultimi quarant'anni si trasformano nelle mani degli improvvisati Réalisateurs, in rifacimenti artigianali a zero budget, nelle quali dosi massicce d’ironia e immaginazione sopperiscono ai limiti tecnici e le ristrettezze finanziarie, trasformando i vincoli produttivi in tonificanti risorse creative.
Grazie al passaparola e al progressivo coinvolgimento nella produzione dei film della clientela del negozio, il successo delle versioni taroccate sarà tale da offuscare persino la fama degli originali hollywoodiani e la videoteca vivrà la sua breve stagione d’inattesa celebrità, diventando il punto di riferimento di una socialità ritrovata e l’avamposto della riscossa popolare di un intero quartiere di fronte all’arroganza dei poteri forti, speculatori edilizi o major che siano.

Sotto l’apparenza del talentuoso ragazzo prodigio dell’industria dei media, si nasconde dunque un imprudente sovversivo? Non scherziamo. Però.

 
Il presupposto warholiano di democratizzazione dello star-system, il diritto alla celebrità come aspirazione irrinunciabile di ciascuno, si traduce nel cinema di Gondry in un rovesciamento di prospettiva, con la riappropriazione dal basso dei territori recintati della società dello spettacolo. I miti dell’industria culturale hollywoodiana, le custodie dei nastri ormai ridotte a involucri vuoti di un immaginario di cupa passività, vengono re-inventati da un’azione creativa che sostanzia i film come prodotti di una laboriosità collettiva strappata all’alienazione della catena di montaggio dell’industria culturale.

Proponendo una vicenda in cui la sola via d’uscita sembra essere la socializzazione dei mezzi di produzione dell’immaginario, Gondry sviluppa e approfondisce coerentemente il suo personale percorso di riflessione sulla funzione liberatoria e terapeutica della fantasia. Se in Eternal Sunshine prima e in La science des rêves poi, l’immaginazione, sola ancora di salvezza di fronte a una società monocroma ed escludente, era l’individuale tratto distintivo di eroi malinconici e disadattati, geniali quanto autistici,  in Be Kind Rewind, con un avveduto ampliamento di prospettiva, Gondry prospetta l’immaginazione creativa non tanto come innata risorsa personale, quanto come agente trasmissibile: il dilagare del contagio ridurrebbe drasticamente lo spazio di manovra per chi vorrebbe un mondo di zombi consumatori.  


La piccola bottega di Be Kind Rewind, luogo fisico e mentale sottratto ai non-luoghi di un’urbanizzazione sempre più smaterializzata, con la sua gestione famigliare senza divise e cartellini di riconoscimento, la clientela affezionata con cui scambiare due chiacchiere in libertà, le vhs sistemate alla rinfusa, ci ricorda altri rifugi felici dai ritmi convulsi del consumo coatto, richiamando direttamente alla mente una serie di precedenti: dal  negozio di dischi di High Fidelity – anche qui un generoso quanto voluminoso Jack Black sempre pronto a insultare la clientela e provocare catastrofi – alla videoteca in stile sit-com della serie Clerks. In carenza di  spazi davvero pubblici, lo spazio privato di un esercizio commerciale di nicchia viene investito di una positiva funzione sociale,  diventando sede d’azione partecipativa.

Dalla messa in ridicolo dei modelli imposti dall’alto attraverso la realizzazione di strampalati remake, alla creazione originale di un immaginario alternativo e genuinamente popolare il passo è breve.


Quando diventerà evidente che le grandi major hollywodiane non saranno più disposte a tollerare l’affronto di veder violato il sacro vincolo del copyright, più spaventate in realtà dalle conseguenze che questa riappropriazione demistificante da parte del pubblico comporterebbe, la premiata ditta di Be Kind Rewind, con la collaborazione dell’intero quartiere, si cimenterà con il suo autentico capolavoro: un mockumentary che, mescolando materiale d’archivio contraffatto e false interviste, ricostruisca la vita e la folgorante carriera del beniamino locale nonché leggenda urbana, Fats Waller.   
Mentre le ruspe già si preparano all’inesorabile demolizione, il film verrà proiettato in anteprima all’interno della videoteca, trasformata per l’occasione in sorta di nuovo cinema paradiso dei sobborghi newyorkesi. E’ solo nella penombra animata dai riverberi bianco e nero di una visione collettiva che il cinema pare in grado di ritrovare per pochi istanti la sua aura esoterica, pre-digitale, celebrando un’inedita alleanza tra la filosofia partecipativa di youtube, e lo spirito cinefilo militante, riflesso della più avanzata etica del Novecento, nel bene e nel male il secolo più avanzato che il mondo abbia vissuto finora.
 
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