di Fabrizio Croce/Corri veloce per tua madre, corri veloce per tuo padre
Corri per i tuoi figli, per tua sorella e tuo fratello
Lascia i tuoi sentimenti, il tuo amore alle spalle
Non lo puoi portare con te se vuoi sopravvivere

Così canta Florence Welch in una delle sue canzoni più celebri, Dog days are over,una celebrazione della vita, dopo aver attraversato il dolore ( I giorni difficili sono passati ) espressa, anche visivamente, in un suggestivo e visionario videoclip in cui Florence sembra veramente una sorta di sciamana, di leader spirituale di una setta calata dentro un contesto lisergico e allucinato, un rito di esorcizzazione di quel diavolo che ti balla sulla schiena , come dice in un altro suo brano, Shake it out, contenuto all’interno di album dal titolo ancora più emblematico ed esplicito, Ceremonials.

La Florence cantante mi accompagna in un estemporaneo collegamento alla Florence attrice , la Pugh, e alla sua apparizione/espressione in una scena, e non dirò in quale punto per lasciar vivere la stessa sospensione di smarrimento che ha provocato in me, di Midsommar (sorvoliamo sull’ottuso e fuorviante sottotitolo italiano: il villaggio dei dannati …) : agghindata , anzi ricoperta e quasi soffocata da una corona e un vestito di fiori come una regina , osserva prima laconica ed arresa, poi quasi compiaciuta, il consumarsi di un rito dove i versi della Florence cantante (Lascia i tuoi sentimenti, il tuo amore alle spalle.Non lo puoi portare con te se vuoi sopravvivere) assumono un valore simbolicamente liberatorio, narrativamente crudele, esteticamente ambiguo. Un’ immagine che apre e chiude contemporaneamente , e che da il senso di un film audace e conturbante , in una tradizione , se vogliamo chiamarla così, che riporta a Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir, a quegli horror o thriller esistenziali dove l’interrogativo , costante , è su come la percezione di ciò che è reale e ciò che non lo è ci definisce in quanto Persona(bergmanianamente intesa). Ari Aster ne è il regista dopo un esordio abbastanza folgorante con un horror , Hereditary, che dietro uno schema di genere ancora più delineato (possessioni, reincarnazioni e riti satanici) già poneva delle questi fondamentali a proposito dell’identità : in quel caso c’era il coinvolgimento di un intera famiglia e di una genealogia matriarcale perversa al servizio di un patriarcato del male(il demone Re Paimom). Ma non era tanto nell’artefatta e a tratti confusa trama da letteratura occultista, quanto in certe invenzioni visive ( i corpi decapitati , gli incubi notturni ad occhi aperti ) che si manifestava un disagio, un inadeguatezza, una fatica nell’elaborazione di un Trauma: argentianamente inteso: per gli appassionati , la (finta) decapitazione di Piper Laurie.

In questo nuovo Midsommar , Aster si spinge oltre , in una direzione dove si allontana dal porto più sicuro , perché più d’impatto, dell’horror spiritico ed esoterico e, pur richiamando palesemente un classico dell’orrore come il britannico The Wicker Man di Robin Hardy (ritualità pagane sullo sfondo di una comunità arcaica di invasati), se ne differenzia per singolarità : infatti qui non c’è , come nel film di Hardy ,nemmeno un pretesto noir che introduce il protagonista in quella comunità, ovvero la scomparsa di una bambina; Dani, il personaggio della Pugh , è subito catapultata in una follia, un orrore senza senso , l’omicidio dei genitori da parte della sorella maniaco depressa, che poi si uccide. Il presunto plot, l’intreccio che dovrebbe essere la situazione introno al cui scioglimento ruota tutto il film, avviene invece nei primi cinque minuti, prima dei titoli di testa, immerso in un buio totale, e poi non viene più ripreso o approfondito, ma resto un segno, una macchia indelebile, un fardello sulle spalle della già fragile e insicura Dani e sulla sua incapacità di costruire relazioni di sostegno e di empatia (Christian, il suo compagno, è forse il più inetto, vile e passivo “fidanzato” nella storia delle coppie del cinema Scream) . Il viaggio nello sperduto villaggio svedese al seguito degli amici antropologi di lui, si presta subito ad essere altro , luogo alieno ed esotico, e forse necessario,  per l’attraversamento del dolore , la fuga attraverso i paesaggi drogati e svelati, come quelli del videoclip delle Florence cantante, per scendere nell’abisso della conoscenza di se stessi.

E questo processo passa per la manipolazione e la coercizione di una piccola , isolata, auto referenziale comunità religiosa che si riproduce attraverso l’endogamia e accoglie l’altro per inglobarlo, fagocitarlo e digerirlo.
Un forma di cannibalismo differente e simile a quella della tribù amazzonica nel rozzo ed effettisco Green Inferno di Eli Roth , a cui Midsommar si può accostare come una versione immersa nell’LSD dell’esistenzialimso scandinavo e squarciata da dei lampi alla Ken Russel o alla Nicholas Roeg, e un’ affinità nascosta con Suspiria versione Guadagnino (la danza selvaggia per celebrare il Dio della morte),
Ma queste stratificazioni di citazioni , non inquinano il ritmo lento ed ipnotico e l’atmosfera rarefatta , la solarità di un tempo senza notte e dunque senza la possibilità di distinguere la luce dal buio, le ombre dalle figure reali .Non c’è bisogno di grossi effetti o di scene choc , la già notevole capacità di creare immagini da parte di Aster si esprime nei dettagli , nelle diverse sfumature cromatiche e plastiche di un paesaggio o del proprio corpo, nel percepirsi come una sola cosa, ashes to ashes.

E poi c’è quello sguardo e quel sorriso: la Florence attrice ha ascoltato l’invito della Florence cantante, ha corso veloce per la madre, il padre e la sorella e ha scelto la sopravvivenza. Una sguardo e un sorriso che possono durare il tempo della realtà o dell’immaginazione, in cui il ruolo all’interno del gioco , della danza , del rito e della cerimonia cambia e da Regina di maggio , carnefice per la fertilità, si può mutare in fantoccio di paglia e carne destinato ad ardere, per alimentare l’illusione che i nostri prescritti, limitati mondi possano rigenerarsi, invece che collassare sotto il peso di una psicosi collettiva.

Dall’altronde, chiudendo sempre con Florence la cantante, Ogni demone vuole la sua libbra di carne, ma a me piace tenere certe cose per me.

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