E’ una realtà empiricamente osservabile, e ormai anche teoricamente accertata, che il nostro è il tempo di una imponente ipertrofia audiovisiva, offerta/imposta tanto nei luoghi istituzionali della visione (ammesso che ancora ne si possano identificare di tali) quanto in quelli più imprevedibili ed eterodossi dello spazio domestico e di quello pubblico informale. E’ il tempo della simultaneità degli sguardi, dovunque essi siano collocati, e della ricercata onnicomprensività del nostro “campo visivo mediale”, dal quale più nulla parrebbe essere escluso: ciò che rimane fuoricampo semplicemente non esiste. In più, è anche il tempo della diversificazione tecnica delle sorgenti audiovisive, agevolata dalla diffusione ormai egemonica del digitale, che spinge verso una definitiva incertezza e disindividuazione della sostanza dell’immagine.

Dato un tale contesto, che continuamente mette alla prova lo spettatore sia a livello percettivo che cognitivo, richiedendogli un’attenzione e una scaltrezza inedite rispetto al passato, non può sfuggire la centralità, proprio in relazione all’immagine, della trattativa incessante in corso tra ricordo e oblio: la possibilità di discernere quali immagini conservare all’interno del flusso ampio e indiscriminato in cui siamo immersi è condizione necessaria per la possibilità stessa di una memoria da costruire. Tanto più che la proliferazione audiovisiva di cui si è detto rende sempre più arduo l’esercizio di verifica dell’immagine, e di conseguenza il riconoscimento di un suo eventuale utilizzo memoriale; la questione, insomma, riguarda anche la concreta possibilità di distinguere tra un vero e un falso, e se tale possibilità non abbia del tutto abdicato a favore di una efficacia emozionale o estetica del simulacro, del tutto slegata da esigenze di verosimiglianza.

Detto in altri termini, allora, oggi l’immagine non può non essere la sostanza prima della nostra memoria (e d’altra parte, per dirla con Bergson, il ricordo puro ritorna comunque sempre sottoforma di immagine), eppure lo è sempre più tortuosamente, ambiguamente.

E’ per via di questa consapevolezza (o, perlomeno, di questa intuizione) che le strade del cinema d’autore più avanzato dell’ultimo decennio sembrano sempre più costantemente e organicamente dirigersi verso la sperimentazione, potremmo dire, dell’immagine memoriale; si pensi al lavoro che vanno portando avanti cineasti come Egoyan, Haneke, Herzog e Van Sant o, per altro verso, alla proliferazione del cosiddetto mockumentary.

Nel panorama italiano il lavoro che va compiendo ormai da alcuni decenni Marco Bellocchio appare di particolare interesse. Un’analisi attenta del suo corpus filmografico mostra come l’interrogazione sulle modalità di messa in scena della memoria sia da sempre un assillo della sua poetica. Tuttavia Bellocchio si distanzia molto dalle soluzioni cinematografiche più tradizionali di rappresentazione del passato (il flashback e la voce narrante, per esempio), che esprimono sempre una frattura tra passato e presente, realizzano una soglia tra un prima e un dopo. La sua scelta va infatti nella direzione di una radicale compresenza delle due dimensioni, più vicina a quella che è la concreta esperienza umana del Tempo, nella quale, come sappiamo, tutto è presente. E’ in questo passato presentificato, coabitato dai vivi e dai morti (Salto nel vuoto, L’ora di religione), da una storia realizzata e da una vagheggiata (Buongiorno, notte), condiviso da uomini in carne e ossa e figure arcaiche (Vacanze in Val Trebbia, La visione del sabba), che si dischiude lo spazio per una commistione sempre più spinta di immagini appartenenti a statuti differenti.

Nell’opera di Bellocchio infatti è facile riscontrare la ricorrenza e la centralità di vere e proprie interferenze mediali, quale principale strumento di narrativizzazione del passato: interventi, cioè, dentro il corpo diegetico del film, provenienti da fonti altre, e quindi referenti di istanze e linguaggi differenti. Marco Dinoi in Lo sguardo e l’evento ha provato a darne una classificazione (riferendola ovviamente all’audiovisivo in senso generale, non solo a Bellocchio), giungendo a distinguere tra inserti, prelievi e innesti. Questi documenti (tali sono a tutti gli effetti) fanno corpo con le immagini manifestamente finzionali del testo filmico, acquisendo, nel rapporto con esse, valori e sensi di volta in volta differenti: il montaggio cinematografico lavora sul documento e ne riformula radicalmente la funzione e persino la sostanza.

bellocchio

Vincere segna in questo senso un’altra tappa della sperimentazione bellocchiana sulla messa in scena della memoria. Qui gli abbondanti prelievi dal repertorio del Luce, bellissimi e puntuali, entrano progressivamente nel corpo del film, contribuendo attivamente alla narrazione. Contrariamente all’uso più comune che riscontriamo nel racconto per immagini, questi documenti non si presentano come accessorio confermativo dell’immagine finzionale, ma come strumento e fonte di dialogo con la stessa, scansando qualsiasi funzione didascalica. Non c’è frattura ma continuum tra le diverse dimensioni messe in gioco. In questo modo lo statuto dell’immagine è costantemente posto in discussione, le realtà si confondono e si accavallano continuamente (il matrimonio di Ida Dalser con Mussolini appartiene alla Storia o solo al film?) e le contestualizzazioni temporali risultano precarie (tant’è che l’uso delle didascalie pare a un certo punto più fuorviare beffardamente lo spettatore che non orientarlo nella comprensione). Vincere si fa in questo modo prototipo di un cinema “finalmente” dialettico: che rispetta lo spettatore perché lo lascia libero di intervenire fin dentro la sostanza di cui sono fatte le immagini e quindi fin dentro la costruzione del senso.

Un esempio flagrante si può riscontrarlo nell’evoluzione della figura di Mussolini, attraverso la percezione di lui che Ida Dalser sviluppa nel corso della storia. Nella prima parte del film il (non ancora) Duce è finzionalizzato, affidato all’intrepretazione di un attore (Filippo Timi). Storicamente, è il periodo che copre fino alla prima guerra mondiale: il tempo del Mussolini socialista, direttore de L’Avanti, anticlericale e infine interventista e soldato. È il tempo, soprattutto, dell’amore per Ida Dalser – passionale e concretissimo incontro tra due corpi. Nella seconda parte, invece, quella che va dal dopoguerra fino al termine della parabola mussoliniana, le modalità di mostrazione del personaggio cambi
ano completamente. Alla Dalser, sin dal 1919 e fino poi alla morte, viene impedito di incontrarlo. Così nel film il suo rapporto con l’uomo che ama avviene esclusivamente attraverso il filtro della di lui immagine pubblica: manifesti, foto, busti e soprattutto i filmati del Luce proiettati al cinema scorrono sotto i suoi (e i nostri) occhi, mentre il Duce rafforza il suo potere. Il corpo di Timi abdica a favore del dittatore depositato nel nostro immaginario; per la Dalser il simulacro fagocita il reale. In questi doppi deformi ella non riconosce il Mussolini che ama, sempre più lontano, mostruosamente grande, infine irraggiungibile. Proverà ad arrampicarsi, invano.

Estraneo a un’oggettività presunta e impossibile, il documento, catalizzatore della memoria, si è fatto cinema.

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