Attore, commediografo e regista partenopeo, ha iniziato a recitare nella compagnia teatrale di Mico Galdieri, divenendo poi in breve tempo attore di riferimento per il teatro di Carlo Cecchi e di Luca De Filippo. Poliedrico e curioso, si è cimentato più volte nel cinema intepretando ruoli memorabili nei migliori film italiani degli ultimi tempi: L’ora di religione, Il Divo ma soprattutto Gomorra, dove dà il proprio volto a Don Ciro, il pavido porta-soldi dei Di Lauro. Lo abbiamo incontrato a Casacalenda, durante il Molise Cinema 2008, in una antica e polverosa sala piena di resti di un set cinematografico che, dopo ricerche logistiche attigue e fallimentari, ci ha regalato tre seggiole di formica verde, probabili avanzi di un ciak scolastico durato troppo a lungo. Si è improvvisato un poco, visto anche l’habitat, sperando di stimolare l’istinto dell’attore.       

Ci può raccontare brevemente la sua carriera di attore: come è arrivato a recitare in Gomorra?

La mia carriera comincia circa 32 anni fa, stavo per laurearmi in legge e facevo praticantato presso uno studio legale.

A Napoli?

Sì, io veramente sono nativo di Castellamare, però cominciai col teatro a Napoli. Fui folgorato dal teatro nel senso che lo vidi come una via d’uscita…

Dagli studi di giurisprudenza?

No, il teatro fu una via d’uscita per la vita. Io credo che ogni artista scelga l’arte per non essere pietrificato dalla vita, così come Perseo uccise la medusa guardandola riflessa nello scudo per paura di essere pietrificato dal suo sguardo. Una volta cominciato col teatro, non mi sono mai più fermato. Oltre che a Napoli, ho lavorato con lo stabile di Firenze, poi a Palermo, etc.

Com’è avvenuta questa folgorazione? Da spettatore o qualcuno le ha proposto una parte? Ci può raccontare com’è andata?

No, niente di tutto questo. A 20 anni, quando ho cominciato, probabilmente ero stato a teatro in tutto 4 o 5 volte e non ho attori in famiglia. Quando m’accorsi che facendo l’avvocato o qualunque altro lavoro potevo rimanere pietrificato, scelsi il teatro. Ho avuto la fortuna di lavorare con Eduardo, con Carlo Cecchi e tanti altri artisti. Sono stato tanti anni in compagnia con Luca De Filippo che, oltre ad essere un caro amico, è un compagno di scena straordinario…  imparato morettiPoi  cominciò ad arrivare il cinema. Ho avuto sempre la fortuna di lavorare con grandi maestri: Bellocchio (Enrico IV, L’ora di religione), Scola (Il romanzo di un giovane povero), Monicelli (Facciamo paradiso, Panni sporchi), Loy (A che punto è la notte), Moretti (Bianca) e poi adesso ultimamente con Sorrentino per Il Divo e con Garrone per Gomorra. Matteo mi propose il ruolo dopo avermi visto a teatro, che lui segue molto: “Va bene –  gli dissi – ci risentiamo quando hai  deciso…” ”No, no – mi rispose – per me quello sei tu” ( il personaggio di Don Ciro, cassiere della camorra, n.d.r.).

A proposito di Gomorra, volevamo farle due domande: la prima se sul set c’è stato spazio per l’improvvisazione – in effetti così sembra –, la seconda come si è trovato con gli attori non professionisti…

Rispondo alla prima: Garrone usa la sceneggiatura come traccia, come canovaccio, poi le battute le cerca al momento e se si ripete più volte la scena cerca delle battute nuove per avere una verità e non una ripetizione stanca delle cose… per non avere una rappresentazione. Sulla seconda, io come attore ho dovuto sottrarre su tutto… procedere per sottrazione assoluta. D’accordo con Matteo mi sono tagliato la maggioranza delle battute perché altrimenti qualunque forma di recitazione poteva essere stonata in quel contesto e mi sono affidato al fatto che la pellicola, come si sa, impressiona le emozioni e i sentimenti. Mi sono concentrato maggiormente su quelli…  e questo l’ho potuto fare grazie al grande allenamento, alla sottrazione che ho imparato con le scuole teatrali sia di Eduardo che di Carlo Cecchi, che insegnavano a non rappresentare le cose ma a farle accadere in quel momento…

Da napoletano che cosa pensa di Gomorra? E’ riuscito a rappresentare la realtà?

Penso che Garrone sia un grande catturatore di immagini, gira in modo da far sì che tutte le immagini siano potenti, è grande cinema. Lui è riuscito a prendere un segmento di realtà, di verità. Quando siamo stati a Cannes con quella platea internazionale, pur sapendo di avere tra le mani un bellissimo film, non eravamo  sicuri affatto che potesse riscuotere un grande successo sia di critica che di pubblico. Ebbene lì noi abbiamo avuto la conferma che quel film poteva avere una valenza universale: poteva essere stato girato a Baghdad o in una periferia di una città russa, tranquillamente… Non era una questione locale, altrimenti non avrebbe potuto suscitare tanto interesse a livello internazionale. L’hanno comprato la Francia, l’America e molti altri paesi.

La mafia è stata molto rappresentata dal cinema, soprattutto quello americano, al punto da generare una sorta di iconografia della rappresentazione del mafioso: pensiamo a Scorsese, Coppola e a tutti i numerosi epigoni…  Ad esempio, tutte queste scene che aveva lei con i soldi sono delle scene che sono state spesso rappresentate dai mafia-movie. Ebbene,  Gomorra sembra avere ignorato questa storia del cinema, questo stile così accattivante della rappresentazione cinematografica della mafia: come ha fatto Garrone a farvi dimenticare queste immagini che sono così radicate nell’immaginario collettivo? Tra l’altro gli stessi delinquenti pare che si ispirino a questi film, lo racconta proprio Saviano nel libro…

E’ vero, ci stanno i due ragazzi che hanno il mito di Scarface. Garrone ha chiesto a noi di sottrarre tutto ciò che potesse essere iconografico o oleografico addirittura, ha usato un linguaggio durissimo, di una verità assoluta,  senza mediazioni. Lui ha individuato un pezzo della realtà e l’ha ripreso con la forza delle immagini.

E’ stato scritto che Garrone avrebbe preferito trarre dal libro, invece di un solo film, dieci piccoli film di un’ora ciascuno, forse per la televisione…  Poi la produzione non ha voluto. A questo proposito, il film mi è piaciuto molto, certe scene illuminano la realtà, però trovo che ci siano delle storie non molto sviluppate, le trovo un po’ troppo deterministe, a parte la storia che riguarda lei, quella del sarto (quindi entrambe con protagonisti attori) e in part
e quella dei due ragazzi, che hanno comunque un respiro più ampio. Mi chiedo che tipo di narrazione sarebbe scaturita in uno spazio di dieci ore. Cosa ne pensa?

Io non sono a conoscenza di quest’intenzione di Matteo di farne dieci storie per la televisione. Il film in un primo momento, almeno la sceneggiatura sul set, si chiamava Sei storie brevi.  Lui ha preso dal libro sei storie, che poi sono diventate cinque e le ha mescolate in montaggio. In quella sede avrà scelto di sacrificare alcune cose anziché altre per questioni di ritmo. Il mio personaggio aveva il vantaggio di essere quello che accompagnava la macchina da presa nell’inferno lungo tutto il percorso della paura che montava per questa guerra…

gomorra il corriereNel film ci sono due scene che la riguardano in cui questo terrore si avverte quasi fisicamente, e in entrambe lei si ritrova solo: quella in cui risale quella lunga strada in salita che la riporta in città dopo essersi salvato clamorosamente nella sparatoria, e l’altra girata alle Vele in cui lei si ritrova a camminare in un corridoio deserto che sembra quello del carcere. Ecco in queste scene il film fa veramente paura: la paura che avverte lei si comunica completamente allo spettatore…

In quel clima di verità non si poteva recitare la paura, doveva essere una paura autentica, una paura che riguardasse non solo il personaggio. In genere il personaggio non sa quello che sa l’attore, e questa schizofrenia si deve in qualche modo comporre perché l’attore sa che non lo ammazzano – perché le pistole sono caricate a salve – mentre il personaggio non lo deve sapere. Però, in questo caso, non bastava la paura del personaggio perché con la macchina a 40 centimetri. Nella scena finale in cui fanno il massacro e salvano solo me perché avevo venduto il cassiere del clan, ebbene in quel momento lì, io avevo bisogno di una paura vera, reale, affinché non ci fosse discrasia tra personaggio e attore. Mi sono cercato una paura autentica: durante la scena pensavo che quello grosso che mi minacciava – che tra l’altro è persona avvezza a scene… cioè, non a scene ma ad azioni violente vere e proprie – immaginavo che nella concitazione della scena potesse colpirmi con il calcio della pistola, e quindi ammazzarmi veramente. In quel caso lì la paura era la stessa, sia per l’attore che per il personaggio, sicché la macchina da presa non ha potuto leggere discrepanze.

Com’è stato girare in posti realmente pericolosi, teatro di scontri nella realtà? Si sa che le riprese sono state abbastanza accettate dalla gente del luogo…

La produzione ha programmato tutto precedentemente andando lì e coinvolgendo la gente del posto. Noi non avevamo camper personali per trucchi e costumi. Tutto si svolgeva nelle case reali, una settimana a casa di uno, una settimana in quella di un altro, in modo da coinvolgere tutti, soprattutto i giovani che partecipavano come comparse.  La produzione ha lavorato molto nel coinvolgimento degli abitanti altrimenti non si sarebbe potuto entrare in un luogo così… Infatti se io ad esempio volessi portarvi a fare un giro con la macchina alle Vele, dopo due minuti ci troveremmo circondati da motociclette. Senza questo metodo avremmo avuto bisogno dell’esercito per girare lì…

Che poi è lo stesso metodo che ha usato Saviano nel libro: entrare dentro alle situazioni…

Mentre noi giravamo a venti metri si spacciava, il commercio continuava. I padroni di casa ci offrivano il caffè, a volte ci invitavano a pranzo, però era un luogo nel quale il dolore era molto presente, era molto faticoso conviverci…

Che sta facendo adesso?

Adesso ho finito di girare il film di Marco Risi, Fort apache, sull’uccisione del giornalista Giancarlo Siani, avvenuta a Napoli diversi anni fa, ho appena ripreso il teatro a Napoli  con un lavoro che narra di una causa fra Edoardo Scarpetta e D’Annunzio, a causa di una parodia cha Scarpetta fece de La figlia di Iorio di D’Annunzio, una causa che poi suscitò un grande dibattito culturale con Benedetto Croce che prese le parti di Scarpetta, Di Giacomo e Russo che si schierarono con D’Annunzio, etc… Vinse poi Scarpetta. Con questo lavoro abbiamo inaugurato il teatro di San Ferdinando che finalmente dopo vent’anni riapre e avrà una stagione. Ne sono molto contento perché ho debuttato in questo teatro nell’aprile del ‘76. Poi a seguire riprendo un lavoro di cui ho curato anche l’adattamento, Niente sesso siamo inglesi, e andiamo avanti fino ad aprile.

Ha una preferenza per il palcoscenico rispetto al set?

Sono due mondi affascinanti, io sono più avvezzo al palcoscenico perché in qualche modo non ho mai smesso, mentre il cinema per lunghi periodi non l’ho fatto. Però sono entrambi mondi affascinanti… il cinema, poi, si avvicina sempre più al teatro perché è diventato artigianato anche quello.

Perché?

Perché al cinema, a differenza della televisione, c’è ancora bisogno del carrello e di un macchinista per fare una zoommata…  Negli anni ’50 il cinema era il massimo della tecnologia, adesso è diventato artigianato, come il teatro.

Forse nel teatro ci sono meno tempi morti…

Una volta a Peppino De Filippo chiesero: “Maestro, cos’è veramente importante per fare cinema?” e si aspettavano che lui rispondesse “il talento, etc.”… Lui invece rispose “ Per primma ‘ccosa accattateve ‘na seggia” .

Risate. Grazie!

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