“… Dopo Tarantino questi hanno smesso di sparare come Cristo comanda, tengono la canna sbilenca, di piatto, come nei film. E questa abitudine crea disastri…”. È un passo tratto dal libro del momento, Gomorra di Roberto Saviano, inserito in un capitolo che l’autore dedica per intero all’ascendente che il cinema americano vanta sul mondo della criminalità organizzata napoletana. Ville dei boss che riproducono nei dettagli quella di Tony Montana in Scarface, congiunte dei padrini vestite come Uma Thurman in Kill Bill, brani della Bibbia declamati prima di fare fuoco come in Pulp Fiction: nell’apprendere a quali estremi si sia spinto il paradosso verrebbe da pensare che il cerchio si sia definitivamente chiuso, che si sia cioè ribaltato quel rapporto di osmosi fra Hollywood e la realtà della malavita nato in senso del tutto inverso quasi un secolo fa, quando in America una forma d’arte ancora giovane rimase folgorata dagli eroi malvagi del proibizionismo, le cui gesta più eclatanti si erano appena concluse, ma avevano lasciato nell’aria l’odore spaventoso ed eccitante della polvere da sparo.

Se all’epoca del muto i film hollywoodiani sull’argomento si contano ancora sulle dita di una mano, gli anni ’30 si aprono all’insegna di un nuovo genere: il gangster-movie. Il che si deve non tanto all’arrivo del sonoro, capace di rendere con spari e strepiti un realismo fino ad allora impensabile, quanto alla pragmatica lungimiranza dei produttori, che intravedono nel gangster d’origine “esotica”, italiana o irlandese, lo scandaloso paladino del pubblico angosciato e in cerca di evasioni mentali della Grande Depressione. Più che dall’edificante spirito rooseveltiano di Capra e Ford, o dall’effetto intorpidente dei dialoghi a raffica della screwball comedy, lo spettatore medio americano dell’epoca si lascia sedurre dalle parabole folgoranti dei mafiosi, le cui inesorabili scalate al potere rappresentano una beffarda imitazione, e una più credibile alternativa, di quel Sogno Americano dal quale nessuno vuole farsi più ingannare.

Film come Piccolo Cesare, Nemico Pubblico, il primo Scarface, ispirati alle figure di Al Capone e di altri boss realmente esistiti, oltre a costituire tentativi di uscire da quel ritmo teatrale nel quale il linguaggio cinematografico sembra essersi impantanato proprio con l’avvento del sonoro, rispondono ai desideri più reconditi dell’immaginario collettivo. E quando questo, braccato dagli eventi, cambierà scenario inoltrandosi verso lidi ancora più cupi, il cinema lo pedinerà fedele.

Mentre in Europa fioccano le bombe e lo shock di Pearl Harbor già si scorge all’orizzonte, il Bogart di Una pallottola per Roy si inerpica sui pendii della Sierra Nevada alla ricerca di una morte solitaria, traghettando l’ormai vecchio gangster-movie nel noir. Il dinamico gangster lascia quindi spazio ad un nuovo protagonista, alienato e meditabondo, perdente fin dal primo fotogramma: non è più tempo di montagne russe, ma di una lenta discesa negli inferi che le ombre della guerra contribuiscono ad agevolare. In questo nuovo contesto l’organizzazione mafiosa non scompare, ma perde il suo posto privilegiato, diventando il contraltare del protagonista, che sia un detective chandleriano perso in un dedalo di misfatti (Il grande sonno, L’ombra del passato) o l’ex criminale che prova, invano, a rifarsi una vita (Le catene della colpa, I gangsters).

Col clima da paranoia della Guerra Fredda, poi, i ruoli si estremizzano: in film come Il grande caldo e soprattutto Un bacio e una pistola un antieroe sempre più disorientato si scontra con organizzazioni inavvicinabili, spaventosamente ed insospettabilmente estese, dall’alone quasi trascendentale.

È da questa posizione defilata ma iconograficamente molto potente che la malavita cinematografica comincia a trarre linfa vitale per assumere un propria dimensione, ed affrancarsi definitivamente dalla realtà. Nel decennio di transizione degli anni ’60 ciò si traduce in film che ripensano alla vecchia criminalità addirittura con un alone di nostalgia, come in Gangster Story. Ma naturalmente saranno i primi due capitoli del Padrino, nel decennio successivo, a consegnare con seducente ambiguità l’immagine del gangster al Mito, e slatentizzare a livello drammaturgico quel côté da tragedia greca già avvertibile nei prototipi anni ’30.

Non a caso, da qui in poi per il genere comincia l’era del post-moderno: il nuovo Scarface, C’era una volta in America, Cotton Club, The Untouchables, Crocevia della morte non hanno più come fulcro ispiratore la realtà della malavita ma il cinema e l’iconografia che ne sono stati tratti, e il ruolo che hanno svolto nell’immaginario, scavando quel solco nel quale poi si inserirà di prepotenza Tarantino.

Nel frattempo, però, l’opera di Scorsese, muovendosi sempre all’interno di un cinema consapevole della propria Storia, ha provveduto a chiudere un ciclo, riportando la figura ormai del tutto autonoma del gangster cinematografico sulle strade buie e prive di glamour di Mean Streets, nella vita quotidiana di Quei bravi ragazzi, fra le magagne coniugali di Casinò, fino ai rovelli esistenziali mutuati dal gangster-movie orientale del recente The Departed, cogliendo quel compromesso fra realismo e leggenda già sperimentato con tonalità diverse in Toro Scatenato, e facilitando quel cortocircuito fra il modello e la sua riproduzione che ha ormai raggiunto persino il cuore della vera malavita.

 

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