La 63esima edizione del Festival di Locarno si è conclusa sabato 14 agosto sotto una pioggia battente che ha impedito la tradizionale consegna dei premi in Piazza Grande. Un pubblico, ben più ridotto, ha assistito alla cerimonia nella sala del Fewi: è stata una palmarés a sorpresa, almeno per quanto riguarda l’attribuzione del Pardo d’Oro. La giuria internazionale, presieduta dal regista Erik Koo, ha premiato infatti con la somma ricompensa del festival – il Pardo d’Oro –  Winter Vacation del cinese Li Hongqi, un film che era passato relativamente inosservato all’interno di una selezione internazionale di buon livello.

Il secondo film cinese in competizione, Karamay di Xu Xin, un’opera fiume di sei ore, aveva risvegliato durante il Festival un interesse ben più marcato, sia per il soggetto che per l’insolita lunghezza. Il film, vietato in Cina, è un documentario meticoloso, un progetto di grande portata che si propone il compito di sondare, quindici anni dopo i fatti, le sequele dell’esperienza traumatica della morte accidentale di 323 persone a Karamay sollevando al tempo stesso il tema spinoso delle responsabilità politiche sui fatti. Durante uno spettacolo ufficiale delle scuole della città in presenza di un gruppo di funzionari del governo e di notabili locali, il palcoscenico aveva cominciato a prendere fuoco: mentre tutti gli invitati d’onore erano stati evacuati in tempo, 288 bambini, fra i 6 e i 14 anni presenti sul luogo, avevano dovuto attendere ed erano tragicamente periti nell’incendio. Il governo si era subito messo in moto per seppellire l’affare censurando ogni informazione.  Il regista affronta questo tema alternando le interviste ai genitori delle vittime, girate in bianco e nero, con delle immagini  a colori dello spettacolo, prima dell’incendio, e dei video della tragedia.

Formalmente Winter vacation si situa agli antipodi di Karamay: comparato a questo documentario monumentale, costruito sul crescendo emozionale delle testimonianze, denso, carico di tensioni, portatore di un discorso apertamente critico nei confronti della classe dirigente del paese Winter vacation si delinea come un esile schizzo sul vuoto esistenziale di un gruppo di persone in una, non meglio identificata, cittadina del nord del paese. I protagonisti del film sono degli adolescenti ritratti durante un periodo di vacanze scolastiche. Intorno a questi ragazzi gravitano alcuni membri delle loro famiglie: un piccolo cugino di quattro anni, il nonno, i genitori di loro, il padre di un altro, una compagna di classe, una “fidanzata”, un venditore ambulante. L’atmosfera assai particolare di Winter vacation si annuncia in modo quasi programmatico già dalla prima scena: la macchina da presa riprende frontalmente, con un piano fisso, una serie di edifici bassi su una strada vuota, da un altoparlante lontano giunge un annuncio reiterato all’infinito. Dopo tre minuti un ragazzo entra nel campo e si ferma nel centro dell’ inquadratura, poi lentamente arriva un secondo e poi un terzo. Silenzio. Dopo altri due minuti uno di loro si decide a parlare. Winter vacation, costruito intorno ad una serie di “scene-sketch”,  é la cronaca stilizzata di uno status quo dominato dalla noia, dal vuoto, dalla mancanza di interessi, dall’incapacità di comunicare con gli altri. La lentezza del ritmo, i dialoghi che ruotano intorno ad un raro scambio di botta e risposta, l’evidente mancanza di uno sviluppo narrativo, lo stile anti-naturalista della recitazione creano una sensazione di stagnazione perenne. Nel film, girato esclusivamente in lunghi piani fissi, Li Hongqi si serve dello spazio definito dall’inquadratura come di un palcoscenico: i personaggi vi si trovano già installati all’inizio della scena o emergono da un fuori-campo attiguo come dalle quinte di un teatro. Una specie di rarefazione spaziale ed emozionale segna il loro rapporto con l’ambiente che li circonda: gli individui, filmati generalmente in piani lunghi o medi,  appaiono in gruppi di due, tre, quatto o cinque e mantengono costantemente una certa distanza gli uni dagli altri e non si toccano quasi mai. La sola eccezione, che conferma la regola,  è una scena ricorrente in cui un uomo minaccia blandamente un ragazzino e lo costringe a consegnargli le poche banconote in suo possesso dandogli, di volta in volta, con un gesto stanco, un abbozzo di schiaffo.

Un’enorme fatica sembra essersi impadronita dei protagonisti che si muovono fra i cortili e le strade vuote della cittadina senza meta apparente e senza fretta alcuna. Una volta all’interno di una casa li troviamo per lo più seduti da qualche parte con lo sguardo perso nel vuoto. Il leader del gruppo dei ragazzi dorme immobile durante il giorno mentre i suoi amici, riuniti intorno al letto, aspettano mollemente il suo eventuale risveglio per decidere cosa fare.

Il tempo è soggetto ad un ritmo rallentato; ogni ben che minima azione è preceduta da una lunga attesa in cui i personaggi, immobili ed irrigiditi, esitano lungamente prima di risolversi a fare un movimento o a proferire qualche scarsa parola. Ad ogni nuova scena questo stesso rituale viene riprodotto. I dialoghi, ridotti al minimo, sorgono a stento; il loro contenuto è per lo più fatto osservazioni banali. I quattro ragazzi sembrano sprofondare, apatici ed indolenti, in un presente privo di prospettive.  Di tanto in tanto discutono pigramente dei soggetti che stanno loro a cuore senza pertanto giungere ad una qualche conclusione. A cosa serve la scuola? Non è meglio mettersi piuttosto a lavorare? Avere una ragazza può influenzare il rendimento scolastico?
La comunicazione è difficile, penosa: quando gli individui si decidono a parlare lo fanno per esprimere il malessere che provano a stare con gli altri. Una coppia si separa freddamente davanti ad un impiegato statale, una giovane donna sfrutta spudoratamente un venditore di legumi, un ragazzo ingiunge al fratellino di allontanarsi perché puzza. Gli unici che sembrano ancora sfuggire a questa logica sono i più piccoli: un bambino ed una bambina ci offrono le battute più amaramente caustiche di tutto il film. “Cosa vuoi fare da grande?” chiede la bimba ed il bimbo risponde: “Voglio essere orfano!”

Nel vuoto creato intorno ai protagonisti della vicenda si delinea un umor minimalista che flirta con l’assurdo. Eccone un esempio tipico: un nonno e il suo nipotino di quattro anni stanno seduti alle due estremità di un divano, completamente immobili. L’uomo fissa un punto indefinito sulla destra, il bimbo guarda dritto davanti a sé. Questa scena si protrae per cinque minuti, dopodichè l’anziano si rivolge con un tono freddo e monocorde al bimbo dicendogli: “Smettila di fare i capricci, se no, viene tuo zio e ti picchia!”. Questa vena comica, diluita nello spazio-tempo dilatato della storia, non è  d’immediata lettura: bisogna dapprima assuefarsi al linguaggio del film, abituarsi al suo ritmo per potere assaporare il gusto secco di questo umorismo in filigrana.
Ai suoi attori il regista chiede di essere delle maschere, di svuotare il loro sguardo di espressione, i loro gesti di naturalezza, la loro voce di calore. In questo stile scabro e minimalista ad oltranza si può intuire l’influenza di modelli come quelli di Bresson o Kaurismaki, tuttavia Winter vacaton, soffre, rispetto ai suoi archetipi, di un eccesso di formalismo. Winter vacation è costruito sul modo d
el distacco: il film non mira a coinvolgerci da un punto di vista emozionale, ma c’invita ad osservare attentamente degli indizi per decifrarne il significato latente. Dietro il non senso esistenziale e il solipsismo che sembra affettare tutti i personaggi della vicenda si profila una satira sociale, una critica profonda ai valori “morali” – cioè all’assenza di ogni valore morale – che definiscono la Cina di oggi.

Li Hongqi, scrittore e poeta oltre che cineasta, ha detto di avere fabbricato il suo film come una partita di scacchi ma con il desiderio paradossale che tutti i suoi personaggi-pedine possano alla fine uscire dal campo di questo gioco per sempre. Il film traccia, impercettibilmente, una traiettoria che ci conduce da un apparente nichilismo esistenziale verso un atteggiamento di critica sociale. Li Hongqi affida, nell’ultima sequenza del film, questo compito delicato, ad un personaggio – un professore di scuola – che non dispone pienamente delle sue facoltà mentali…. Un giorno l’uomo entra nella classe sbagliata e, invece di fare lezione, si lancia in un’arringa infuocata, l’unica del film: “ Il vostro libro di testo vi dice che siete i signori dell’universo, in realtà non siete altro che degli esseri arroganti, egoisti, stupidi e avidi. Andrete tutti a finire male. Nel corso della storia per generazioni intere abbiamo discusso del senso della verità e della realtà, ma di fatto non abbiamo mai posseduto la ben che minima conoscenza di noi stessi o del mondo in cui viviamo. Ogni biblioteca ed ogni mente nel mondo intero non fa null’altro che aumentare la stupidità umana!” A questo punto viene gentilmente pregato di uscire.  Al suo posto subentra una professoressa che scrive sulla lavagna il titolo del tema in classe: “Cosa farò da grande per essere utile alla società?” Gli alunni la fissano attoniti. Tutto ritorna nell’ordine, come prima, come sempre… ma, a chi sa leggere fra le righe, non sarà certamente sfuggita l’ironia sovversiva del film.

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