Aya e Louis s’incontrano, dopo un pò di tempo, sul bordo della Senna: è estate, una luce tersa e una brezza leggera inondano la scena e già da questi primi istanti in cui gli sguardi pieni di attesa e desiderio, timore e speranza, fragilità e sfida, pudore e provocazione s’incontrano e si scontrano, già in questi primi istanti in cui la cinepresa gira intorno ed avvolge con il suo tocco gentilmente partecipe i due personaggi che si cercano e si sfuggono, si attirano e si scansano, già prima di venire travolti dall’impeto tranquillo e giocoso delle parole, noi spettatori sappiamo di trovarci davanti ad un film raro e prezioso.

Distillato di un savoir faire di quarant’anni di attività nel cinema, Un enfant de toi di Jacques Doillon ci offre la possibilità di riconoscerci e conoscerci con una grazia leggera e profonda, dolce e lacerante, regalandoci -quasi en passant– una partitura complessa dei nostri moti di spirito più fugaci e contradditori.

Non a caso Jacques Doillon, riferendosi al suo cinema, parla spesso di musica. I suoi personaggi, le loro parole, il modo in cui sono dette, i silenzi, le incertezze della voce, la velocità della locuzione ed ancora i movimenti dei corpi nello spazio, la relazione degli uni agli altri, le mani che s’intrecciano, un tocco lieve o una carezza, ed infine gli sguardi tutti questi elementi compongono insieme la musica del film.

Affinché una scena venga scelta al montaggio bisogna che risuoni nella giusta maniera, in quell’unica tonalità atta a creare una nota armonica.

Dietro a tutto questo c’è un lavoro accanito, appassionato ed appassionante con gli attori e per gli attori, che sono invitati ad agire nel senso letterale del termine, ad implicarsi a fondo attraverso un lavoro talmente rigoroso sul testo che riescono alla fine a creare il miracolo: fare scaturire una scintilla di vita vera da quello che è, per definizione, gioco e rappresentazione.

Ed é proprio in questa delicata, inattesa epifania che ha luogo durante le riprese che finisce per ricamarsi di colori incomparabili  l’ordito minuzioso della scrittura.

Non avere paura del tempo, della durata, filmare il tempo nel tempo: un lusso ed un privilegio che il cinema d’oggi sembra avere completamente dimenticato al profitto di un montaggio furioso, di dialoghi rapidi e sommari, come se la concentrazione quantitativa delle scene potesse offrire a noi spettatori di più, mentre in realtà ci toglie molto trascinandoci in un vortice cha appiattisce nella fretta pensieri ed emozioni.

Al Roma Film Festival durante il suo incontro con la stampa Jacques Doillon ci ha consentito di entrare nel laboratorio del suo film, di sbirciare dietro lo schermo e le quinte immaginarie del suo lavoro,  permettendoci  di avvicinarci al suo processo creativo.

Se il discorso ha preso lo spunto dal suo ultimo film, Un enfant de toi, presentato in concorso, si è poi ampliato, abbracciando delle questioni più generali; ed è stato un vero piacere seguire questo maestro discreto e rigoroso, gentile e sottilmente ironico in uno scambio d’idee vivace con il pubblico presente. Sotto la guida sensibile ed esperta di Marie Pierre Duhamel, la conversazione ha ugualmente saputo coinvolgere l’appassionata Lou Doillon che con grande affetto ed altrettanta lucidità ha completato le opinioni di Jacques, padre e regista, offrendoci così una visione a tutto tondo del suo metodo di lavoro.

Riportiamo qui i punti salienti di quest’incontro.

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La sceneggiatura di Un enfant de toi, un complotto al femminile?

Marie-Pierre Duhamel: La storia del film sembra essere una specie di complotto femminile. Dicevi, in modo molto grazioso, che per te scrivere una sceneggiatura è un po’ come tessere o lavorare a maglia. Guardando il film si ha l’impressione che la trama si costruisca intorno al personaggio centrale di Aya, intepretato da Lou Doillon, quasi come l’ordito di un tappeto.

La sceneggiatura, un ordito in fieri

Jacques Doillon: Il complotto di Aya, la protagonista, consiste in effetti in un complotto con se stessa, per se stessa, contro se stessa, contro gli uomini, per gli uomini e per la sua bimba. Se si tratta veramente di un complotto, allora è un complotto molto ricco, molto complesso sul quale non è facile rispondere con quattro parole. Se avessimo a nostra disposizione due o tre ore, allora potremmo forse sondarne pienamente il significato.

La metafora del fare un film come lavorare a maglia riflette molto bene il mio modo di procedere: quando inizio le riprese, pur avendo già a mia disposizione una sceneggiatura molto precisa, non so bene dove sto andando. Proprio per questo cerco di girare il più possibile seguendo l’ordine cronologico; ciò mi permette di continuare a ricamare, in un certo senso, intorno ad ogni scena e fare avanzare l’ordito della sceneggiatura, i caratteri dei singoli personaggi e principalmente di quello della protagonista. Se nel momento in cui si gira non ha luogo questo lavoro di tessitura, di rielaborazione ed arricchimento allora, secondo me, le riprese si riducono ad una mera esecuzione della sceneggiatura. Sinceramente non riesco proprio a capire come dei registi possano sopravvivere facendo una cosa del genere, forse ce la fanno grazie ai grossi assegni che si mettono in tasca, perché, credetemi, é terribilmente noioso! (ride)

Il lavoro con gli attori

Lou Doillon: Lavorare con Jacques Doillon è sempre un’esperienza molto gioiosa. Avere la possibilità di confrontarsi con la sceneggiatura già prima delle riprese in un modo così approfondito è per me un dono divino perché implica un vero esercizio di ricerca da parte di noi attori e crea un’autentica complicità degli uni con gli altri. In seguito, durante le riprese, è come se tutti questi diversi elementi, tutte queste sfumature e questi colori venissero riuniti su una tavolozza. Nonostante il canovaccio della sceneggiatura sia molto solido il momento delle riprese è cruciale; nell’istante stesso in cui una scena viene rappresentata e malgrado l’assenza di improvvisazione accadono delle cose impreviste che creano spesso una svolta totalmente inattesa. Non so spiegarmi come una cosa del genere possa succedere – di fatto è un processo assai inquietante – ma allo stesso tempo anche appassionante perché ci sorprende di volta in volta. È molto strano avere una sceneggiatura molto ben definita, ma poter far sì che la vita, la vera vita,  scaturisca in maniera spontanea dal nostro gioco d’attori!

Per ricollegarmi alla metafora di prima è come se Jacques Doillon avesse scelto con grande precisione tanti fili diversi ed, allo stesso tempo, all’interno di questa trama, ci fosse la possibilità di muoversi liberamente,  esplorare questo spazio e vedere dove ci può portare.

Jacques ha ragione quando, parlando dei bambini, dice che hanno soprattutto molta voglia di piacere agli altri, questo vale anche per noi, attori adulti.

Abbiamo molta voglia di lavorare sull’interpretazione del nostro ruolo ed essere guidati da qualcuno che ha una visione globale delle cose, mentre noi siamo, in un certo senso, confinati nei nostri personaggi e nei no
stri punti di vista particolari.

E sempre più raro che un regista ci domandi veramente di metterci al lavoro e di non essere semplicemente lì per snocciolare delle frasi a memoria e rappresentare una scena secondo copione, senza alcun’implicazione personale.  E molto piacevole sentire di non essere costantemente prigionieri dell’ideologia del “risultato”, a Jacques infatti interessa il lavoro come processo non come prodotto.

Improvvisazione e lavoro con i bambini

Jacques Doillon : Non sono favorevole all’improvvisazione, per cui in realtà tutto è scritto, a volte capita che gli attori aggiungano una piccola cosa, ma in linea di principio tutto è scritto.

Mi si domanda molto spesso quale sia il mio metodo di lavoro con i bambini, visto che ho girato vari film con loro nel corso della mia carriera. Truffaut per esempio, non si metteva a lavorare con i bambini come avrebbe fatto con degli attori adulti perché riteneva che i bambini, come pure i cani ed i gatti, bisognasse semplicemente limitarsi a filmarli così come sono, visto che non possono essere diretti in alcun modo.  Io credo invece che con i bambini si possa lavorare benissimo. Direi che i bambini stessi non chiedono altro, anzi aggiungerei che i bambini hanno bisogno di piacersi e di piacere agli altri. Per arrivare a questo risultato non c’è altro da fare che mettersi a lavorare e cercare di creare delle cose che, a prima vista, non sono così semplici ed ovvie. Oggigiorno non si esige più nulla dai bambini, loro stessi invece vogliono essere stimolati, spronati a fare delle cose impegnative perché, di fatto, si annoiano parecchio.  Se si scelgono dunque dei bambini che amano molto giocare e se si riesce a farli divertire con il film allora possono, senza alcun dubbio, arrivare ad essere dei grandi attori.

Riprese e piani sequenza

Jacques Doillon: Se si vuole trovare la buona musica del film,  se si crede nella scena che si sta girando – ed è proprio questo che il cinema significa per me- ci vuole parecchio lavoro ed un certo numero di riprese.  Giro esclusivamente dei piani sequenza perché non voglio fabbricare il mio film durante il montaggio; ciò comporta 10-11-12 riprese per scena e, se dovessi girare con una sola cinepresa, allora si arriverebbe anche a 18 riprese. In Un enfant de toi c’erano due cineprese sul set. Questo modo di girare rende possibile la libertà nell’interpretazione del testo, mi permette, per esempio, di allungare un silenzio o di cambiare il ritmo della locuzione. Non riuscirei a lavorare altrimenti; non so nulla di tutto ciò prima di girare una scena, sono troppo maldestro! Solo durante le tre, quattro, cinque o otto ore di ripresa di una stessa scena si potranno fare dei passi in avanti e si riuscirà, forse, a trovare il suo senso recondito…

Quando si è scritto un dialogo si pensa di sapere già tutto, in realtà non si sa proprio niente e se gli attori si limitano ad interpretare pedissequamente il copione, si finisce per non avere nulla fra le mani.

Sulle sfumature dei sentimenti nella vita e nel cinema di Jacques Doillon.

Lou Doillon : La sorte ha voluto che io crescessi in un ambiente cioè quello di mio padre, Jacques Doillon da un lato, e quello di mia madre Jane Birkin e dei suoi amici dall’altro, in cui le sfumature nei rapporti umani erano considerate molto importanti.  Io stessa penso che nella vita reale si possa passare da dei sentimenti di una grande violenza a dei sentimenti totalmente opposti nel giro di pochi secondi.  Faccio spesso fatica a riconoscermi nel cinema di oggi, così come pure nei romanzi o nel teatro di oggi perché i rapporti fra le persone sono rappresentati in modo banale, superficiale, scontato, come se dalla mattina alla sera fossero sempre gli stessi.  Se ognuno di noi si prendesse la pena di ascoltare la propria voce interiore si renderebbe conto che le sue relazioni con le persone che gli sono più care sono terribilmente ambigue. Se vivessimo in un mondo più onesto ammetteremmo senza alcuna difficoltà che ci sono, per esempio,  dei momenti in cui vogliamo molto bene ai nostri figli ma ci sono anche dei momenti in cui non li capiamo più, in cui non sappiamo più chi siano. Ci sono dei momenti in cui amiamo qualcuno più di tutto al mondo; improvvisamente una porta si apre e, senza una ragione precisa, il suo sorriso ci repelle e poi, un attimo dopo, lo si ama di nuovo. Insomma la vita è in realtà incredibilmente movimentata; proprio per questo mi piace lavorare con qualcuno come Jacques Doillon, perché nei suoi dialoghi ritrovo tutta la varietà e la contraddittorietà della vita. Nella maggioranza del cinema cosiddetto moderno non esiste tutta questa complessità nei dialoghi. Io penso invece che, ad ogni attimo, attraversiamo mille stati d’animo diversi e che non c’è nulla di più appassionante di questi istanti. La vita reale é molto più vicina all’assurdo che alla coerenza. Jacques riesce molto bene nei suoi dialoghi a riprodurre tutto ciò; in una scena un personaggio può avere venti sentimenti contrastanti o addirittura opposti che però nel loro insieme non tolgono nulla al sentimento in sé. In questo tipo di processo noi attori abbiamo l’occasione di giocare con le sfumature e cercare di trascrivere qualcosa della vera vita nel nostro lavoro pur sapendo, ovviamente, che il cinema non è la vita.  In ogni modo c’è qualcosa di questo movimento della vita nel cinema di Jacques ed è questo che mi affascina.

Influenze letterarie

Jacques Doillon:  Mi sento molto prossimo ad un certo tipo di letteratura, quella dei grandi romanzi  dialogati; non mi riferisco solo ad un grande maestro del genere come Stendhal, che ammiro molto peraltro, ma ad un autore considerato minore ed ingiustamente poco conosciuto in Francia: Benjamin Constant.  Constant scrisse agli inizi del 19esimo secolo un diario intimo che per me è una vera fonte d’ispirazione. In quest’opera che io trovo formidabile, Constant attribuisce ai sentimenti che prova per ogni personaggio femminile – la sua amante inglese, quella tedesca o la donna con la quale vive che è poi Madame de Stael – un numero corrispondente. Se non vado errato, lo cito in modo approssimativo, il numero due stava per : voglio finire la mia relazione con questa donna ed il numero tre significava : ritorno amoroso di fiamma.

E veramente divertente vedere come queste cifre si susseguano a vicenda più volte nell’arco di una stessa giornata. Constant era abbastanza detestato ai suoi tempi; quando è morto sua figlia ha subito bruciato tutto il suo carteggio, ciononostante ritengo che sia un romanziere importante perché è stato il primo che, in una maniera sottile,  è riuscito a sondare la complessità e la contraddittorietà dei moti d’animo nel quotidiano.

Nei miei film non esiste una finalità morale, filosofica o metafisica…

Jacques Doillon : Nei miei film non esiste una finalità morale, filosofica o metafisica che sia, cerco semplicemente di mostrare una realtà che é la mia.

Non so se i miei film possano definirsi come dei film realisti più di un tanto e, a dire il vero, non me ne preoccupo poi troppo. Comunque sia non ho nessun’intenzione di impartire una lezione di ordine morale od altro che s
ia attraverso il mio lavoro: un film è composto di una serie di scene, si cerca di lavorarci su il meglio possibile, questo è un processo alla volta molto complesso e molto ricco durante il quale mi rendo spesso conto dei miei limiti personali.

Vorrei essere in grado di sondare i caratteri dei personaggi che metto in scena in modo molto più approfondito, mi piacerebbe riuscire a penetrare nell’intimità più recondita della loro mente. Quello che faccio è semplicemente raccoglierne qualche frammento,  non so se questi frammenti siano sufficienti ma, da qui in poi, lo spettatore è libero di sentire e di comporre a modo suo il tessuto delle sue interpretazioni.

Rohmer

Jacques Doilon: Amo molto Rohmer e sono molto felice di sapere che alcuni dei miei film gli piacevano perché era un ragazzo molto timido, un po’ come me. Tanti anni fa avevo fatto un film, Raja, presso Les Films du Losange, che era la sua società di produzione. Rohmer lo aveva visto e, da altri, mi era stato riferito che ne era entusiasta. Mi ricordo che mi ero sentito molto lusingato. Di fatto ci incrociavamo quasi ogni giorno nei corridoi della casa di produzione, ci dicevamo furtivamente buon giorno ma non osavamo quasi mai guardarci negli occhi. Una sera dopo tre mesi, non so neanch’io cosa gli fosse preso, mi ha bloccato nel corridoio e d’un colpo in tre minuti mi ha detto tutto il bene che pensava del mio film, poi è filato via quasi di corsa, come un ladro e non mi ha mai più guardato. Rohmer ed io avevamo un rapporto assai singolare, è certo! (ride) Non posso dire che i film di Rohmer non mi piacciano, per esempio La Marquise d’O è uno dei miei film preferiti in assoluto, però a volte – e me ne scuso- devo ammettere di avere una piccola difficoltà con il suo universo. Ho la sensazione che ci si trovi spesso di fronte a dei meri scambi di idee, a delle disquisizioni fra intellettuali piuttosto che a delle vere e proprie relazioni umane; a volte mi va bene ma a volte penso che sarebbe valsa la pena di andare un po’ più lontano…..

La nouvelle vague

Jacques Doillon: Nonostante tutti i suoi innegabili pregi a mio avviso la Nouvelle Vague  non è stata in grado di lavorare in modo solido con gli attori; per semplificare potrei dire che trovavo un peccato che Rohmer non facesse più di tre riprese per scena. Quelle famose tre riprese per scena che rendono felici le televisioni del mondo intero e purtroppo, a volte, anche il cinema! È vero anche che, a volte, in tre sole riprese dei registi che sanno esattamente quello che vogliono riescono a fare dei film ammirevoli, io purtroppo non ne sono capace…. Penso che noialtri, quelli che siamo venuti dopo Rohmer, se abbiamo avuto un qualche merito, è stato probabilmente nell’avere affinato e reso più solido e consistente il nostro lavoro con gli attori; a partire da Pialat, che non apparteneva alla mia generazione ma che non faceva neanche parte della Nouvelle Vague, passando per molti altri registi fra cui, ovviamente, Techiné e, mi permetto di aggiungere, me stesso.

Il montaggio

Jacques Doillon: In fase di montaggio non scelgo mai la prima ripresa ma molto probabilmente l’ultima, o una delle ultime, perché nel frattempo la scena è avanzata, si è evoluta, gli attori sono migliori, io sono un po’ meno stupido che all’inizio e tutto funziona meglio soprattutto facendo dei piani sequenza per cui  una ripresa può durare tre, cinque, otto o dodici minuti. Al giorno d’oggi il digitale ci permette di fare dei piani molto lunghi; sul montaggio di  Un enfant de toi dovrebbero esserci qualcosa come trentacinque o quaranta piani al massimo, ovviamente essendo stati girati con due cineprese diverse si ha la sensazione di avere qualcosa come quattrocento o cinquecento piani a disposizione ma questo numero è pur sempre inferiore alla media dei film che sono composti in genere di mille piani. Io non riesco a lavorare se non girando dei piani molto lunghi.

Rapporti con il cinema….

Mi risulta difficile definire la mia posizione all’interno del cinema; non ho la sensazione di avere dei riferimenti sufficienti per rispondere a questa domanda perché penso di non avere visto un numero sufficiente di film… Comunque sia penso che sia bene vedere molti film durante il proprio periodo di formazione dopo però bisogna starsene per conto proprio con la propria sceneggiatura – il che non è poco-  e cercare di scrivere ciò che scaturisce da se stessi con del sentimento. Semplificando al massimo direi che per me ci sono due tipi di cinema: o ci si situa al più presso dei cosiddetti ‘classici’ ed è, direi, il mio caso, mi riferisco a Dreyer, Bergmann, passando per Cassavetes, Kazan e via dicendo.  Mi domando spesso se posso arrivare a commuovere lo spettatore quasi altrettanto  quanto questi grandi cineasti; è una competizione che ingaggio idealmente con me stesso!  Esiste poi un secondo tipo di cinema che non si situa dalla parte degli affetti e dei sentimenti; si tratta di un cinema che si nasconde dietro allo stile e dietro ad un insieme di varie cose. Questo tipo di cinema mi annoia. Non riesco a guardare dei film dove c’è della poesia a buon mercato ad ogni passo. Con questo tipo di cinema non ho nulla in comune.   In fin dei conti, faccio un tipo di cinema assai conservatore, anzi addirittura abbastanza reazionario, direi!

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