Dopo aver dato un ripasso veloce alla filmografia di Stephen Frears viene in mente la critica che di frequente è stata mossa al cinema inglese, ovvero la mancanza di una precisa identità e l’assenza di un approccio estetico riconoscibile. In realtà anche il cinema d’oltre manica ha avuto i suoi manifesti e i suoi maestri e, nella storia del cinema europeo, parallelamente alle altre due grandi scuole, quella italiana e quella francese, ha dato corpo ad una cinematografia tanto cospicua quanto importante, affatto priva di identità. Tra i registi della sua generazione Frears è forse il più eclettico, quello che più di tutti ha attraversato linguaggi e tematiche distanti tra loro. Personalità dirompente e irrequieta, ha fotografato, con il suo ampio sguardo, le trasformazioni e le contraddizioni della società inglese (quella tatcheriana con My beautiful launderette),i rapporti interraziali, il tema dell’omosessualità, optando per una visione priva di connotazioni ideologiche.

Chissà se per la sua irrequietezza o per pura ambizione, Frears ha poi intrapreso la strada per gli Stati Uniti, girando diversi film hollywoodiani, alcuni di grande successo come Le relazioni pericolose o Eroe per caso, scelta che ha dato fiato ad un’altra critica spesso rivolta al cinema inglese, quella di un sostanziale appiattimento sugli stilemi del cinema hollywoodiano. Tuttavia, è proprio nella disomogeneità che Frears ha trovato la sua strada. E’ lecito pensare che l’esperienza hollywoodiana abbia affinato la sua la capacità di dirigere magnificamente grandi attori e grandi attrici (come avviene nei suoi ultimi tre film) e che anche un certo modo di organizzare il racconto ne sia un lascito evidente. Così come avveniva in The Queen, film che ricostruiva i giorni difficili e tormentati della corona inglese all’indomani della morte tragica della principessa Diana, anche in Philomena la storia procede con il passo di un thriller che attraverso i numerosi colpi di scena disseminati lungo il sentiero narrativo disvela a poco a poco il nucleo tematico del film. Le analogie tra le due pellicole sono numerose e ne fanno due opere speculari. In entrambi i film, Frears dirige con maestria ineccepibile due grandi stelle del teatro e del cinema inglesi, Helen Mirren e Judi Dench, che offrono tutta la loro intensità interpretativa per indossare i panni di due anziane signore decise a difendere le proprie inflessibili convinzioni radicate nella tradizione storica, istituzionale e religiosa nell’Inghilterra di oggi, caricandosi sulle spalle il peso della rappresentanza di un mondo in dissolvenza.

  

L’acume di Stephen Frears sta proprio nell’utilizzare la cronaca per raccontare la complessità e il travaglio di un passaggio d’epoca ineluttabile ma non privo di controversie. Da una parte il mondo tradizionale, novecentesco, incarnato dalla regina Elisabetta e da Philomena, le quali, chiuse nel loro arroccamento identitario vivono una relazione di conflitto con le nuove coscienze, tanto aliene e sconosciute quanto inaccettabili; dall’altra il mondo contemporaneo, ipermediatico, liquido, i cui epitomi vestono i panni di un inadeguato Tony Blair, interpretato dall’ottimo Michael Sheen, e di un goffo giornalista in crisi professionale. Il difficile rapporto tra tradizione e modernità (o postmodernità) è il campo di riflessione del regista, il quale usa il cinema come strumento di potenza immanente nel disvelamento della verità contro la rappresentazione che i media offrono di essa. Questa dualità, che nel film viene presentata come una dicotomia culturale e psicologica, offre spunti di riflessione che si espongono al rischio di una analisi conservatrice, comprovata dalla sincera simpatia che Frears sente nei confronti delle due anziane signore e nei confronti del loro orgoglioso radicamento nel mondo culturale e sociale al quale appartengono. Ma i personaggi “progressisti” (vedi la spocchiosa moglie di Tony Blair o il giornalista in Philomena) sono presenze anch’esse chiuse nelle loro certezze e incapaci di comprendere le ragioni delle due anziane signore.Quello che vale la pena evidenziare, come valore fondamentale di questi due film, è la loro capacità di erodere il sistema di convinzioni che ci costruiamo sulla base di architetture ideologiche o, peggio, di un’informazione famelica e manipolatrice. Tutto questo ci fa temere che quello di Frears sia lo sguardo di chi nasce progressista e muore conservatore.

 

Sappiamo tuttavia che il suo è lo sguardo intelligente e lucido, per nulla sconfitto di chi comprende l’importanza, la necessità dell’incontro intimo con l’altro da sé. Nei suoi ultimi film non c’è traccia di quell’amaro disincanto che spinge verso una nostalgia di maniera, tanto cara a molti autori di segno progressista, troviamo invece l’energia vitale e produttiva che può scaturire dalla comunicazione tra visioni, sensibilità, culture, stati mentali apparentemente incompatibili.    

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