Home è probabilmente la migliore materializzazione che sia stata fatta finora delle insidie sottese alla problematica formula “casa dolce casa”. Un incubo.

Una famiglia vive ai margini della città, in una casa sul ciglio di un’autostrada abbandonata. Isolata, primitiva e autosufficiente in apparenza, un imprevisto la costringerà a riposizionarsi ma non prima di averne fatto esplodere le contraddizioni.

La caduta nella spirale della dipendenza esclusiva ed escludente offerta dalla famiglia, la chiusura verso tutto quello che c’è fuori, così che il vortice autoreferenziale, dunque tutto “interno” alla situazione, annullando la possibilità di produzione di un pensiero critico e lucido non può che causare lo sfaldamento morale e infine materiale dei rapporti familiari. Un’isola di folle e difensiva autarchia, ma posizionata in mezzo a un’autostrada in attesa decennale d’essere messa in funzione. L’elemento perturbatore, dunque, è qui rappresentato dalla linea d’asfalto, fino ad allora abbandonata dalla comunità e riconvertita a giardino di casa dalla famiglia in fuga dalla realtà, che improvvisamente riprende il suo normale uso di collegamento, passaggio, trambusto, movimento, possibilità di cambiamento. La famiglia si asserraglierà nella casa (quantunque, paradossalmente, abusiva), oramai sempre più un bunker, fino a che l’aberrazione insita in tale scelta troverà la sua via esplicativa nel sogno-incubo che aggredisce Marthe (Isabelle Huppert), la madre, e che la porta a rompere la catena ossessiva e a uscire fuori dal percorso in cui si era imprigionata per troppa paura della realtà, imprevedibile e conflittuale.

Isabelle Huppert presta il suo corpo magro di adulta-ragazza, forte e fragile (esemplare la sua sin-patia verso la determinazione nevrotica), al personaggio intorno a cui ruotano tutti gli altri: è lei infatti che crea le dipendenze, è lei che non riesce a uscire fuori dalla sua casa-prigione, è lei che ha paura dell'”altro”. In cambio delle rinunce cui sottopone il marito (Olivier Gourmet), devoto fino alla debolezza, e i figli, ostaggi di questa relazione primaria assoluta, la madre offre dedizione, energia e amore, che anche se malato è comunque necessario e che costituisce un antidoto potente contro le insidie e i rifiuti che la realtà esterna può riservare.

La regista, dunque, da una iniziale visione utopica in cui la famiglia appare felice nel compiere i suoi semplici rituali e nel relazionarsi con naturalezza, in apparente libertà (le scene nella sala da bagno segnano bene l’ambivalenza –liberatoria e/o morbosa- insita in una tale promiscua confidenza), quindi lontano dalle complicazioni e dai vari “complessi” portati dalla “civiltà”, si sposta sempre più verso una rappresentazione deformata e allucinata dei quadretti bucolico/fusionali abbozzati, per finire verso l’incubo di violenza raggelata alla Haneke. Eppure, nonostante anche la evidente passione per i corrosivi stermini bunueliani, la regista sceglie di dare una possibilità alla protagonista, impressionando un foro d’aria sulla sua soffocante nevrosi. Bella la scena finale in cui la macchina da presa, montata su un’automobile in corsa sull’autostrada, lascia andare i suoi personaggi togliendoli, sembrerebbe, dal giogo manipolatorio della regia (madre del film).

Se proprio si vuole fare una critica a Home, e chi scrive crede discretamente in tale costruttiva pratica, la si deve circoscrivere nell’andamento un poco troppo a tesi della narrazione, piena di trovate funzionali all’idea portante, che rende di fatto prevedibile la seconda parte del film. La Meier, qui al suo primo lungometraggio di finzione, è un’autrice che viene dai cortometraggi, dove, si sa, tutto deve essere molto concentrato, molto significativo, teso a rappresentare nel breve cerchio che esplica il racconto, spesso una metafora, l’”idea”, per forza di cose efficace, che lo sostiene. Il farsi di un film è però pista più lunga percorsa da un ritmo più ampio, così che l’idea deve necessariamente mettersi in relazione con i protagonisti, poli centrali nella diversa relazione con lo spettatore, e farsi storia.

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