[**]Dopo Le relazioni pericolose e The Queen, Stephen Frears mette ancora una volta in scena un film in costume, rappresentando la Belle Époque in disfacimento alle soglie della prima guerra mondiale, tratta dalla penna di  Colette dei romanzi Chéri e La fin de Chéri, dove la scrittrice racconta l’impossibile amore fra una cortigiana e il suo protetto. Siamo nella Parigi dei primi del novecento, con una nobiltà decadente – destinata a lasciare presto il posto alla borghesia fattiva del dopoguerra – che si aggira annoiata tra Café Chantant, partite a carte, pranzi di gala e feste dove le vestigia delle ultime cortigiane, si dissolvono insieme agli splendori della loro giovinezza. Lea De Lonval, interpretata da Michelle Pfeiffer, è una di loro: cinquantenne ancora affascinante, ritiratasi a vita privata grazie alle fortune ereditate dai ricchi amanti incontrati, vive libera e serena come solo le donne del suo mestiere potevano permettersi in quegli anni. Charlotte Peloux (Kathy Bates) amica e collega di vecchia data di Lea si trova nella stessa situazione, con in più troppi chili per essere considerata ancora attraente e un figlio poco più che diciottenne: Chéri (Rupert Friend).

Chéri – il cui vero nome è Fred – è vissuto coccolato dalle amiche della madre, vezzeggiato da ambienti di velluto e alcove molli di piaceri che ne hanno reso femmineo e svogliato il carattere. E’ un giovane capriccioso e pallido, abituato fin da bambino ai numerosi amanti di Nonoune – come  chiama Lea – che a sua volta lo appella col vezzeggiativo Chéri nonostante il giovane sia ormai divenuto un uomo. Charlotte preoccupata per la salute del figlio, smarrito fra piaceri e ozio, spinge Chéri nelle braccia di Lea, sperando che l’amica possa svezzarlo alla vera vita e restituirglielo rinvigorito. Inizia così, quasi per gioco, una relazione fra Lea e Chéri che, a dispetto delle intenzioni, si trasforma in una storia di sei anni, in un amore tragico per la differenza di età degli amanti e per le convenzioni sociali che impediscono a entrambi di svelare e vivere fino in fondo il sentimento che provano.

Tradurre è sempre un po’ tradire e adattare un romanzo al grande schermo è una prova difficile sia per il regista che per lo spettatore/lettore. Frears ha realizzato una grande ricostruzione storica in termini di costumi, ambienti, volti e fotografia ed è riuscito a cogliere il soffio leggero – nonostante l’argomento drammatico – della narrazione di Colette. Supportato da due grandi attrici come la Pfeiffer e la Bates ma anche da un perfetto Chéri-Friend, che sono riusciti a essere e non solo a recitare i personaggi, il film merita certo l’applauso ma non se lo si analizza rispetto al testo di Colette.

Al film di Frears manca lo spessore del dramma, la complessità dei caratteri, l’analisi storico-sociale della contrapposizione nobiltà/borghesia, vissuta da Chérie come una vera e propria malattia nostalgica nel testo di Colette, completamente o quasi tralasciata dal film, a favore dell’intreccio amoroso. La Lea di Frears che nella prima parte del film aveva “minuettato” verbalmente proprio secondo l’uso dell’alta società dell’epoca, cede nel secondo tempo a dialoghi borghesi più simili ai nostri giorni che al personaggio originale al quale, peraltro, si era già fatto torto con il corpo filiforme della Pfeiffer, lontano dai canoni burrosi del tempo. La Bates è invece perfetta nel ruolo della cortigiana in disfacimento, abbandonata agli unici piaceri capaci di darle emozioni: il cibo e le stoccate di schermaglie verbali pesanti, come la digestione di pranzi e merende a base di invidia e cattiveria gratuita. Discutibile anche la scelta di una voce fuori campo che racconta la vicenda – nel film originale quella del regista stesso – che sebbene aiuti lo spettatore nel seguire la vicenda, resta didascalica e, soprattutto, il doppiaggio dal tono ironico, fa somigliare la vicenda a un feuilleton, mentre le opere di Colette hanno tutta la dignità del romanzo.

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