E’ possibile nascere e crescere in una bella, vitale e squinternata famiglia (americana), con due genitori particolari, dotati ognuno di un talento complementare, con affetti e comunicazioni molto intensi, e dopo aver saputo che tuo padre, che ti ha profondamente amata e che alla morte di tua madre ha intrecciato la sua vita con la tua, che ti ha protetta e incoraggiata, un uomo splendido e amato, quel padre non è tuo padre (gli americani usano il termine padre biologico e con questo strutturano già una risposta – in un certo senso semplificatoria- alla domanda), è possibile, mi chiedo, mantenere la stessa capacità di assimilazione e sviluppo degli affetti, che altrimenti sarebbero trascorsi in una sorta di sereno (è un’ipotesi) e forse assopito fluire di relazioni consolidate, è possibile non subire una sorta di shock e di smarrimento?

In un certo senso sì, per Sarah Polley almeno. La domanda è retorica e serve solo per cominciare la riflessione partendo dalla constatazione apparentemente banale, ma ancora solidamente piantata nella sfera emotiva di moltissimi individui, che far parte di una famiglia (biologica), avere madre e padre, fratelli e sorelle, è una condizione che tutt’ora sembra costituire un sorta di riserva di senso nel vivere quotidiano, intendendo con questo la rete di rapporti affettivi ma anche la rete di protezione materiale che la famiglia ha costituito e, negli ultimi tempi, ha anche sostanzialmente ampliato. Non sono un apologeta della famiglia, non mi sono estranee le sue profonde contraddizioni e lacerazioni, limitazioni e inadeguatezze, ma il bellissimo film documentario di Sarah Polley, nato da un’idea del padre (non biologico) di scrivere una biografia e un’autobiografia che è anche un’opera letteraria, con intrecci complessi, ruota di fatto attorno ad un nucleo centrale, il quale, con movimenti crescenti, si espande con una capacità inclusiva notevolissima e finisce per conglobare il tema generale delle relazioni umane, dal loro instaurarsi “naturale”, “biologico”,  al loro costruirsi e definirsi all’interno dei sistemi codificati;  ruota cioè intorno al nucleo della famiglia.

Una piccola premessa, che inquadri la tecnica di costruzione del documentario, credo sia necessaria per una sua corretta percezione. La storia della famiglia di Sarah Polley, incentrata su sua madre Diana Polley, straordinario personaggio femminile degli anni sessanta americani (siamo in Canada ma non c’è sostanziale differenza), è vera, ed è narrata dai protagonisti reali di quella storia, attraverso il montaggio di filmini super8 (bellissimi) e interviste dirette a conoscenti e parenti. Laddove è servito, la regista ha fatto uso di ricostruzioni (filmini fatti ex novo) ed è ricorsa ad alcuni attori tra i quali ovviamente, il personaggio della madre. Ma ciò non diminuisce il valore e il significato storico–filologico della ricostruzione, solo chiarisce la posizione, che a tratti potrebbe sembrare ambigua, della regista, che in virtù del suo ruolo ambivalente, figlia parte in causa e ri-costruttrice della storia e dei suoi metasignificati, attraverso la sua arte e la sua volontà intesse la complessa rete di relazioni, svela e costruisce nuove verità, plasma la creazione del senso e del mezzo che lo veicola, in questo caso il film-documentario.

La bellezza e la validità del film risiedono proprio in questa ambiguità, in questo mescolarsi di sguardi “esterni” e di introspezioni, in questa molteplicità di sensazioni e di letture, in questa dichiarata libertà di manipolazione necessaria al senso della sua ricerca -l’ambiguità della verità? Il film comincia con un monologo fuori campo del padre (Michael) che afferma di essere un individuo “unico”, prodotto irripetibile, portatore di immensa particolarità e quindi, in definitiva, di immensa solitudine ma anche di pari desiderio di relazione. Michael è un attore, e la sua relazione con Diane  comincia su un set teatrale dove la parte che recita è l’esatto contrario del suo essere reale: Diane dà vita a un personaggio con caratteristiche opposte, essendo lei stessa completamente diversa dal suo personaggio. Si innamorano, ognuno del ruolo recitato dall’altro, ritrovandosi nella vita reale a confrontarsi con lo specchio del desiderio generato dall’arte.

E il loro rapporto, all’inizio e per un po’, funziona benissimo, quasi una commedia degli equivoci che costruisce incanto e godimento e che  genera una famiglia, una bella famiglia, un po’ matta come  quella di Little miss Sunshine,  per capirci. E’ proprio questo strutturarsi in una famiglia che innescherà i meccanismi tipici della crisi del rapporto d’amore. Le responsabilità portano Michael a trovarsi un posto stabile e a ritirarsi in una solitudine depressiva che Diane non riesce a sopportare. Lei è una donna forte e vitale, attiva, attraente e dispensatrice di gioia. Ha superato il primo matrimonio uscendone ferita e i figli nati dal primo marito sono a lui affidati per la somma dei pregiudizi dell’epoca che vedono in una donna libera e vitale un pericolo mortale per l’istituzione.

Il film documentario, dopo il monologo, comincia con la presentazione dei fratelli nati dal primo matrimonio, poi degli altri nati dal secondo matrimonio e via via dei conoscenti che tratteggiano, ognuno dalla sua  particolare prospettiva, un ritratto di donna magnifica, alla quale tutti sono debitori di significativi momenti di gioia. A 42 anni, al culmine della crisi del rapporto con Michael, Diane accetta una parte in uno spettacolo teatrale in un’altra grande città canadese e parte lasciandogli i figli. Da questo momento comincia la rinascita del padre, che ritrova energia e volontà tanto che quando va a trovare Diane la passione sembra riaccendersi, di nuovo fanno l’amore.

 Diane dopo qualche mese torna a casa. E’ incinta e forse vorrebbe abortire, Michael invece è contrario, alla fine nascerà Sarah, suo grande amore. La donna dopo pochi anni si ammala di tumore e in poco tempo muore. La perdita per tutti è terribile, Michael si rifugia nella famiglia e la cresce anche nel mito della madre.

In un altro bel monologo, Michael introduce il tema dell’uguaglianza dei bambini conferitegli dalla loro unicità, dal loro bisogno di essere amati e di amare. Lo fa in modo particolare, richiamando il concetto dell’unicità dell’essere (esposto inizialmente)  rivelando che è questo il modo in cui l’unico diventa universale. È l’instaurarsi di una relazione che nasce e si sviluppa sui sentieri dell’amore e dell’empatia che crea il legame dell’individuo con l’umanità.

Detta così sembrerebbe un po’ sciropposo (e un po’ a tratti lo è anche) ma ciò che rende interessante il tutto è lo sguardo e la funzione della regista-figlia, della creatrice d’arte e di senso, di colei che è capace di estraniarsi  e affondare il bisturi della macchina da presa, del super8 costruttore di ricordi, dentro il corpo vivo di se stessa e degli altri attraverso il tessuto delle relazioni, dei ricordi e dei desideri.

Ma torniamo alla storia. Ossia a Sarah. Di chi è figlia? Dubbi scherzosi su somiglianze e estraneità sorgono in seno a fratelli e conoscenti, fino a spingerla ad andare a trovare il presunto padre (o forse proprio a non trovarlo). Non è infatti la persona da tutti indicata (l’attore) il padre, ma un altro (il produttore), che ha amato Diane di un amore possessivo ed escludente e per questo destinato  a  soccombere di fronte alla molteplicità dei rapporti che la donna è capace di vivere in modo profondo e vero così da renderli, probabilmente, universali.

Quando Diane torna da Michael si compie un’inversione del senso comune dell’esperienza dei rapporti affettivi di esclusività, di trasgressione e di responsabilità e di apertura. Il padre-produttore, l’uomo libero e trasgressivo, impegnato e politicamente all’avanguardia, vuole far valere il diritto del sangue e in un certo senso riappropriarsi della figlia (ma senza il movimento di lei non avrebbe mosso un dito probabilmente in nome di certe sensibilità). Sarah appare frastornata e chiede tempo per comunicare a Michael la verità e per non ferirlo.

La verità. Ma quale verità? Il vero risiede nell’unico e nell’universale, e nei rapporti confusi che si stabiliscono nel confronto e nel dialogo tra questi due poli apparentemente contrapposti, ed è  l’arte l’anello in grado di unirli e renderli fecondi. L’opera congiunta di padre-non padre e figlia agisce sul magma indistinto del racconto – testo, ricordo, ricostruzione- comunicando non “una” verità ma la somma e la fusione di tutto ciò che è stato e di ciò che è al momento del farsi del film -la Polley ha più a cuore il processo di comprensione che l’estorsione della verità. 

Alla domanda se questa rappresentazione plurima restituisce e descrive bene il personaggio di Diane, il padre-produttore risponde NO. La sola vera Diane è quella che ha attraversato la sua vita in quel periodo, e con questa ultima dichiarazione il produttore padrone gioca la sua parte nella rappresentazione, quella dello sconfitto.

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