Rengaine, il film francese più giovane, commovente, fresco e divertente presentato  alla Quinzaine des Réalisateurs ci rivela un regista di talento allo stato brado: Rachid Djaïdani.

Mettendo in scena un Romeo e Giuglietta urbano-parigino a lieto fine, Rengaine parte da un plot classico, quello dell’amore contrariato fra due giovani appartenenti a fazioni opposte, per costruire una folle, caleidoscopica, gioiosa favola sulla tolleranza.

Rachid Djaïdani, ci ha messo nove anni, a montare questo film collettivo, come ha spiegato presentando Rengaine sul palco della Quinzaine, nel suo film c’è del vero, del vissuto, del concreto, ha poi aggiunto. Non ha mentito: Rengaine è un film viscerale fatto con una passione, un entusiasmo ed una vitalità che ci investono di petto.

Nato in Francia dall’unione di una madre sudanese e un padre algerino, cresciuto nella banlieue parigina, Rachid Djaïdani si è costruito contro corrente. Dopo avere lavorato nell’edilizia, Rachid é campione di box ma la sua voglia di esprimersi lo spinge oltre. Decide di diventare attore; dapprima interpreta dei piccoli ruoli al cinema ed in televisione poi entra nella troupe teatrale di Peter Brook con cui gira il mondo per cinque anni. Nel frattempo scrive tre romanzi: Boumkoeu, Mon nerf e Viscéral (Ritratto di un ragazzo da buttare alle ortiche e Viscerale sono stati pubblicati in Italia da Giulio Perrone) e realizza due documentari.

Dopo una gestazione lunghissima, delle riprese sincopate e rocambolesche fatte fra amici nei ritagli di tempo, con mezzi tecnici di fortuna, senza luci, ma con una foga ed un’urgenza senza pari e due laboriosi anni di montaggio, Rengaine, il suo primo lungometraggio, vede finalmente la luce.

A partire dalla scena d’esordio, girata all’aria aperta in un parco parigino, l’originalità e la verve del suo linguaggio visuale s’impongono: Dorcy e Sabrina, gli eroi del film, ripresi da presso con una cinepresa mobile e vibrante, si dichiarano il loro amore reciproco. Dorcy chiede a Sabrina di sposarlo; in un close up, fra il verde delle foglie sfocate, i due, con una naturalezza incantevole, tirano fuori, non si sa bene da dove,  due piccole pietre a forma di cuore e si mettono ad imitarne il battito a vicenda.

Ma questo momento di gioia spensierata non è destinato a durare a lungo. La decisione di sposarsi segna l’inizio di una serie di guai senza fine per la giovane coppia che tutto sembra dividere;  Dorcy è infatti un ragazzo di colore africano e cristiano mentre Sabrina è una giovane donna algerina e mussulmana che ha inoltre ben quaranta fratelli maschi, senza l’accordo dei quali, secondo la tradizione, non può prendere marito.

Questi quaranta fratelli, un po’ come i quaranta ladroni di Alì Babà, sono sparsi per tutta Parigi; chi lavora come tassista, chi come poliziotto, chi ha un garage, chi è pugile, chi sta semplicemente in giro a bighellonare e via dicendo. Tutti questi uomini creano una fitta rete di contatti e, in un certo senso, controllano la totalità del tessuto urbano; difficile dunque sfuggire al loro sguardo e peggio ancora, al loro giudizio.

Capo di questa gang variopinta e proteiforme è Slimane, il fratello maggiore, “le grand frêre”, sul quale pesa la responsabilità di salvaguardare l’onore della famiglia. Accettare questo matrimonio è fuori questione. Così Slimane, un uomo sulla quarantina, inquieto e febbrile, con lo sguardo perennemente stanco, cerchiato da occhiaie profonde, inizia una vera e propria caccia all’uomo. Il suo scopo è  quello di trovare a tutti i costi lo sconosciuto che vuole sposare sua sorella ed impedire quest’unione contro natura. Andando da un fratello all’altro, con una buona dose di fortuna, Slimane, riesce infine a scoprire il nome ed in un secondo tempo anche l’indirizzo del promesso sposo di Sabrina.

Attraverso l’uso costante di un montaggio parallelo, le peregrinazioni e la furiosa ricerca di Slimane si alternano con le vicende di Dorcy, un attore emergente, docile e mite, pronto ad accettare ogni ruolo pur di farcela,  e di Sabrina, una giovane donna fiera, indipendente e sicura di sé. Partiti con molto entusiasmo per annunciare la lieta notizia ai loro amici Dorcy e Sabrina devono costatare che anche in seno alla comunità artistica in cui vivono la tolleranza e l’apertura mentale sono ben accette solo in teoria. Nel frattempo, nonostante il suo entourage cerchi di convincerlo a lasciare sua sorella in pace, Slimane non demorde e compra una pistola; la tensione monta e tutto ci lascia temere il peggio. La storia si concluderà con un meraviglioso, liberatorio, finale a sorpresa.

Quanto descritto finora, costituisce solo l’ossatura della trama di Regaine; l’anima della pellicola si trova, di fatto, altrove. Con un ritmo sfrenato ma completamente  controllato il regista esplora un inventario di caratteri unici filmandoli con una salutare dose di sarcasmo e di autodecisione. Ognuno aggiunge con la sua fisicità, la sua parlata peculiare e la sua energia, una nuova pennellata di colore e di vita all’affresco corale che compone la pellicola.

Nella vicenda, che ha significativamente luogo durante il periodo del ramadan, confluiscono una miriade di punti di vista, di opinioni e di atteggiamenti diversi nei confronti di questo matrimonio tabù. Gli incontri dei tre protagonisti con amici, conoscenti e famigliari ci trascinano in una girandola di prese di posizione, strappandoci costantemente il sorriso, perché tutti finiscono per cadere, puntualmente, in una rete di contraddizioni. Così a metà film, nel corso di una scena esilarante in cui una cantante bionda urla le sue rivendicazioni sociali dal fondo di un locale notturno, scopriamo che questa giovane donna è ebrea e di fatto nientemeno che la compagna del ‘grande fratello’ Slimane.

Senza cadere nel moralismo Rengaine ci mostra così che il male che mina la convivenza delle varie comunità non è tanto, o solo, la mancanza di tolleranza ma, ben più insidiosamente, la doppia morale e l’ipocrisia.

Stilisticamente parlando il marchio distintivo del film è il trattamento dell’immagine; un’immagine mossa che vibra continuamente e fa sentire tutto il suo peso, volutamente amatoriale, annunciando un cinema del margine e al margine, ma fiero di esserlo. All’immagine sporca, spesso sfuocata e sottoesposta, Rachid Djaïdani associa volentieri dei primi piani, creando così una fusione ottica alquanto ardua per chi guarda. Ciononostante l’arguzia dei dialoghi, la vivacità dei personaggi e la forza d’accelerazione del film sono tali da farci ben presto dimenticare questa sovra-eccitazione sensoriale. La storia poi si srotola con un ritmo scatenato contando su un montaggio che sa giocare sull’effetto sorpresa e riesce a mantenere intatta, pur con una fluidità ed una libertà senza pari, l’intelligibilità del suo  discorso narrativo.

Quello di Rachid Djaïdani è un cinema fisico, concreto, appassionato. La foga e la prossimità ai personaggi e ai loro corpi – una massa fremente in perpetuo movimento – ci fa venire in mente le prime opere di Cassavetes. La naturalezza con cui il regista filma i mille angoli di Parigi, creando una cartografia urbana fitta e flessibile come un’enorme ragnatela, ci rimanda al tocco le
ggero della Nouvelle Vague.

In unisono con le mille musiche che sottendono la vita della città, Rengaine è un film palpitante, scanzonato e densissimo; un’esperienza che bisogna assolutamente vivere in prima persona! Prova ne è la lunghissima, entusiasta standing ovation che lo ha accolto alla fine della proiezione a Cannes.

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