Ai registi italiani invitati a Cannes, ormai è consuetudine, viene sempre chiesto di commentare le strane attualità politiche che giungono dal Belpaese: di solito è Moretti, ma lo scorso anno è stata la volta di Saviano al seguito di Garrone, e quest’anno è toccato a Marco Bellocchio il cui ultimo, bellissimo film sulla prima famiglia di Mussolini, ha suscitato inevitabili paragoni con le imbarazzanti vicende “private” di Berlusconi, recentemente salite agli onori della cronaca anche internazionale. “Mussolini ha molte cose in comune con Berlusconi e in particolare l’uso spregiudicato dei media” – ha risposto in sostanza Bellocchio – ma la moglie secondo lui no, ha dimostrato buon senso, non ha nulla di Ida Dalser, l’eroina tragica cui Giovanna Mezzogiorno ha tanto appassionatamente prestato le fattezze nel suo film.

Indubbiamente le vicende delle due donne non sono esattamente ricalcabili (Veronica Lario al limite potrebbe essere una Rachele emancipata), i tempi sono diversi, non c’è una dittatura di tipo militare, i dissidenti non vengono incarcerati né internati, né ci troviamo nel mezzo di due guerre mondiali con tutta l’aura di tragedia che questo comporta. Però… però le parole di Bellocchio minimizzano troppo la questione dell’attualità del suo film e celano un po’ di falsa modestia riguardo al suo fiuto di artista, alle sue indubbie capacità di catturare l’aria dei tempi, di squadernare latenti questioni collettive proprio mentre la critica non perde occasione di ripetere che i suoi film sono soltanto riletture in chiave assolutamente personale e visionaria di fatti storici o politici. Era successo con Buongiorno, notte, in cui aveva ben individuato nella rimozione della morte di Moro il trauma non risolto della storia italiana recente, è riaccaduto con Vincere, che a suo modo ben rappresenta un sentimento diffuso, un’esigenza che, come è evidente in questi avvelenati giorni di campagna elettorale, non ha caratterizzato soltanto la società italiana del fascismo: la fascinazione verso l’uomo forte, il bisogno irrazionale di sottomettersi, di affidarsi ad un Capo che assuma in sè tutto il potere, che prenda decisioni al posto nostro, che ci dispensi dal pensiero angoscioso di una vita quotidiana o di un futuro incerti e difficili. Quando queste pulsioni incontrano l’Uomo carismatico, animato dalla necessaria, abnorme, sete di dominio e dalla certezza di essere invincibile, gli italiani non esitano a seguirlo, ad accecarsi, anche a farsi maltrattare per un certo tempo, salvo poi rinnegarlo completamente, ma solo dopo aver toccato il fondo. Forse non è una dinamica soltanto italiana ma qui da noi è ben sostenuta da una cultura cattolica di fondo che, certo malintesa, indirizza verso la sottomissione, il senso di colpa, l’obbedienza e dall’atavica indifferenza verso le leggi e le responsabilità.

A questo punto si dirà: ma che c’entra tutto questo con il film di Bellocchio, storia del destino disgraziatissimo (e sconosciuto ai più prima di Vincere) della probabile prima moglie di Mussolini e del suo primogenito rinnegato Benito Albino? C’entra, c’entra, perché Ida Dalser, nella sua passione cieca, generosa, masochista, totale verso il futuro Duce, può tranquillamente essere considerata una metafora dell’Italia tutta, che con rapidità ed entusiasmo si consegnò ad un improvvisato leader, che con altrettanta rapidità e disinvoltura era passato dal socialismo rivoluzionario e ateo a quella peculiare forma di dittatura populistica, paleocapitalistica e clericale che fu il Fascismo. Mussolini ripagò con indifferenza e ferocia l’abnegazione ossessiva di Ida Dalser portandola mano a mano verso la rovina, l’impazzimento e la morte, eppure lei continuò ad amarlo, a rivendicare il suo ruolo di moglie del Duce, a pretendere di essere ricambiata. In quest’inclinazione all’eroismo l’Italia non somigliò forse a Ida Dalser, ma nell’ostinata rimozione dei pericoli e nella fiducia cieca e malriposta sì, e si fece ugualmente maltrattare e portare cialtronescamente alla guerra e alla distruzione prima di reagire e, forse, di rinsavire.

E’ tutto implicito, naturalmente, ma la dinamica in atto nell’Italia attuale non è molto diversa: c’è un presidente del Consiglio che somiglia sempre più a un Capo che assomma in se’ tutti i poteri, che sfacciatamente si comporta come fosse al di sopra della legge, e la cui smisurata megalomania raccoglie le proiezioni di un’Italia tanto stanca e disincantata quanto pronta a consegnarsi all’uomo della Provvidenza, a smettere di pensare, a rinnovare ciecamente la fiducia a un uomo la cui unica abilità straordinaria è quella di saper fabbricare un’immagine, di sè e della realtà, aderente ai bisogni degli italiani. Un’immagine che naturalmente ha solo incidentalmente a che fare con quello che accade realmente.

Veronica Lario non sarà un’eroina tragica ma le sue parole sono state, negli ultimi tempi, l’unica seria opposizione a quest’impalcatura virtuale, l’unica “infiltrazione” di realtà in grado di infliggere un autentico colpo al culto della persona che circonda il marito (“ciarpame senza pudore”, “un uomo che non sta bene…”,la dittatura potrebbe venire dopo di lui”, e soprattutto “non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni”). Le vicende di Ida Dalser non hanno danneggiato l’immagine di Mussolini al potere, ma solo perché il Duce ha potuto servirsi liberamente di polizia politica, strutture conventuali compiacenti e controllo totale sull’informazione per mettere tutto a tacere. Evidentemente chi insegue il dominio delle menti sa bene, ora come allora, che sull’immagine si gioca la partita fondamentale e che non esiste distinzione fra pubblico e privato che tenga.

Marco Bellocchio non poteva certo conoscere, ai tempi in cui girava il film, la richiesta di divorzio più politica che la storia recente ricordi, tuttavia è andato a parare, come sempre, su un nervo scoperto della società italiana.

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