Vincere è un film dal montaggio “futurista”, che racconta la tragedia umana di una delle mogli del duce, Ida Dalser e del figlio Benito Albino, entrambi cancellati per volontà di Mussolini non solo dalla sua vita, ma anche dalla storia – almeno da quella ufficiale – e il delirio di un’epoca infiammata dall’idea che la guerra – come recitava il manifesto del movimento – è la sola igiene del mondo.

“La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità penosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno”: questo il terzo punto del Manifesto del Futurismo che sembra scritto per il film di Bellocchio. Un pugno nello stomaco, uno schiaffo a quell’immobilità penosa – la lentezza di Milan Kundera – che però racconta senza l’approssimazione e le tinte forti dell’aggressività.

Il film di Bellocchio, infatti, è lo specchio rovesciato di ciò che voleva denunciare: l’esaltazione, la stupidità dell’ignoranza che, ancora oggi, porta gli italiani a votare un partito-padrone, la follia della massa che schiaccia l’individuo e, nel privato, l’assurdo di una femminilità asservita al potere-maschio.  Bellocchio si cala a tal punto nell’humus del non-senso da perdere le fila del senso. Se il primo tempo del film, infatti, oltre le lunghe e reiterate scene di sesso che sembrano per Bellocchio l’unico éscamotage narrativo, atto a raccontare la passione egotica del duce per Ida e l’asservimento di questa alla pseudo-potenza fallica del maschio, conserva l’originalità del montaggio e l’armonia fra storia pubblica – con l’ascesa di Mussolini e l’entrata in guerra dell’Italia – e privata – Ida che vende la sua attività e ogni bene per sostenere economicamente Mussolini –  con apparizioni di volti sfigurati dalla malattia che sembrano fantasmi e poi si scopriranno le compagne di manicomio di Ida, il secondo tempo, spezza definitivamente la speranza, nello spettatore, di una sensibilità realmente analitica, oltre la spettacolarità.

Vincere nasce in primo luogo come storia di un dramma privato, come ha dichiarato lo stesso Bellocchio: il dramma di un amore sofferto, il dolore di una vita negata, di un’ingiustizia taciuta, di un figlio rifiutato. La Storia è certo parimenti protagonista, trattandosi di Mussolini, ma non bastano né i cinegiornali, né la solita rappresentazione del manicomio anni settanta-Matti da slegare, a riallacciare i fili della complessità di un mondo interiore, di una donna che, oltre i gesti estremi di una iconografia non originale, nel secondo tempo annoia e allontana lo spettatore dal coinvolgimento profondo.

La complessità analitica dello scavo psicologico manca al film di Bellocchio e non è un elemento prescindibile in un film che nasce con l’intento di riportare a galla, un dramma come quello vissuto dalla Dalser. In certe scene l’esaltazione, l’approssimazione futurista, sembra prendere la mano a Bellocchio e regalare allo spettatore una smorfia comica che svilisce la drammaticità reale della storia. Esaltata la recitazione. Eccessive le musiche – perché non è un musical – gridato il dolore, sovraesposti i corpi, le scene e gli intenti, si resta come davanti al primo punto del manifesto Futurista della Letteratura:

“Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono”.

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