A due anni dall’uscita di Avatar, il film-evento che ha catalizzato l’attenzione del grande pubblico sulla fruizione del cinema in 3D, riportando in auge un sistema di ripresa e proiezione cinematografica che aveva raggiunto l’apice della popolarità negli anni ’50 e poi in un secondo momento negli anni ’80, ci troviamo nuovamente, e con una velocità assai accelerata, ad aver già consumato questa nuova ondata di film che, sulla scia del successo commerciale planetario del film di James Cameron, sono stati realizzati, o in alcuni casi convertiti, per cavalcare l’onda alla logica del 3D.

Ovviamente il problema della sensazione di stanchezza e di abuso che appare dall’utilizzo del 3D riguarda il mondo senza regole del mercato commerciale, dell’industria che non si preoccupa della necesittà creativa ed estetica e che non si pone questioni di nessun tipo sull’utilizzo del mezzo, ma semplicemente approfitta del momento come farebbe un qualsiasi personaggio uscito dal meccanismo di qualche reality show, che si getta in pasto alla vorace e momentanea fame del pubblico per saziarne i gusti; e una volta assolto al suo compito viene scaricato come una sigla svuotata di significato.

La sigla del 3D rischia di diventare questo marchio appiccicato a pellicole delle quali si cerca di sfruttare il potenziale commerciale, una sorta di logo estraneo alle dinamiche interne e alle necessità artistiche e stilistiche del cinema, la patacca brillante che però rischia di non attirare più, ma, anzi, di essere nuovamente sorpassata e dimenticata in attesa di un nuovo revival.

Esente da qualsiasi logica commerciale e animato, al contrario, dai più nobili intenti divulgativi e informativi fin dal titolo secco ed evocativo, Foibe guadagna invece il primato di essere il primo documentario in 3D prodotto dalla Rai e realizzato da un giornalista del TG1, Roberto Olla, il quale tenta l’esperimento audace di unire riprese in 3D dei paesaggi dell’Istria, dove si consumò la tragedia di migliaia di italiani torturati e uccisi dai partigiani jugoslavi comunisti all’indomani dell’armistizio della seconda guerra mondiale, con materiali di repertorio e con le testimonianze di due sopravvissuti: Graziano Udovisi, scomparso poco prima della realizzazione del documentario e la cui ripresa è mantenuta in 2D, e Licia Cossetto, sorella di quella Norma torturata e infoibata dopo l’8 settembre 1943 e alla quale l’ex Presidente della Repubblica Azeglio Ciampi assegnò la medaglia d’oro alla memoria.

Quest’ultima intervista è ripresa con la tecnica del 3D e la domanda che suscita questa curisosa scelta di separare stilisticamente i due momenti, che sono lo scheletro portante del racconto, riguarda proprio il perchè, la ragione che ha spinto Olla ad impiegare la tecnica del 3D. La spiegazione, data dall’autore qui a Bellaria, durante la presentazione in sala, è quella della volontà di avvicinare le generazioni più giovani a un argomento, per di più rimosso e controverso come quello delle Foibe, oggi ad esclusivo appannaggio manipolatorio e propagandistico della destra estrema.

Dunque il 3D, pur svincolato dalle logiche e dalle ossessioni commerciali, rimane ancora una volta orpello e specchietto per le allodole rivolto ad un “presunto” pubblico che dovrebbe così sentirsi attratto da una tematica dolorosa e complessa, forse non ancora divenuta patrimonio comune di una memoria collettiva, dall’impiego di una tecnica di proiezione finora associata a prodotti più appetibili e moderni. Salvo poi, trovarsi davanti al solito, pedante e paludato documentario, di matrice estetica e narrativa, appartenente in tutto e per tutto alla Rai-Radio Televisione Italiana.

Le testimonianze di Udovisi e della Cossetto hanno infatti un valore autonomo, esattamente come i filmati d’epoca, ma non sono stati rielaborati, collegati ed espressi in un linguaggio coeso, forte. Un linguaggio, documentaristico e cinematografico, che sia nuovo nell’organizzazione dei materiali che si vorrebbe far dialogare tra di loro, mettendo in relazione le generazioni della tecnologia con quelle della vita, per fare in modo che la Storia non rimanga lettera morta.

La faccia antica e segnata dalla Storia di Graziano fa a pugni con quelle immagini in 3D di paesaggi che potrebbero documentare anche un filmato pubblicitario turistico sull’Istria e le sue bellezze naturali; e il 3D sull’immagine composta e piena di dignità di Licia, e del ricordo prezioso e toccante della sorella, crea un effetto sul limite del ridicolo involontatio. Non solo verrebbe voglia di togliere gli occhiali dati in dotazione, ma anche di chiudere gli occhi e affidarsi solo alle parole per ripescare dal nostro immaginario privato e collettivo visioni non contaminate dall’uso maldestro della tecnologia e molto più sconvolgenti di qualsiasi effetto speciale calato dall’alto di una volontà di fascinazione piuttosto che da una necessità di racconto e riflessione sulle immagini del nostro tempo e su quelle che appartengono alla memoria.

Sintomaticamente, sempre qui a Bellaria, in questi giorni, si è parlato e si è cominciata ad avere dimestichezza con la forma del radiodocumentario, genere che proprio alla suggestione della parola e alla fiducia nella sua potenza evocativa affida un valore di documentazione che può alimentare, e anzi rimettere in funzione, un immaginario ormai impoverito e anestetizzato proprio da quest’idea di immagine in 3D in cui tutto sembra a portata di sguardo e basta girarsi intorno in una vertigine per stare dentro il mondo delle storie e dei personaggi che un regista vuole raccontarci.

Questo documentario dimostra come non basta un’etichetta appiccicata e tante buone intenzioni per farci toccare il cuore pulsante di un personaggio o di una situazione, ancor meno della Storia.

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