E alla fine devo ricredermi. Questo è uno dei pochissimi film italiani che assurge ad un rango di tutto rispetto. Vada a totale merito del regista, Edoardo De Angelis ― e al bravissimo cast, da Luca Zingaretti agli altri caratteristi che non fanno una piega.

L’idea della trama è molto forte, e trasuderebbe neorealismo da tutti i pori. Se non fosse che in realtà è ieratica. Sta nel solco della grande Tradizione.

Un uomo qualunque, un borghese piccolissimo, un avvocato scaduto (o decaduto), che per errori di carriera si è ridotto a patrocinare cause immonde di personaggi immondi. Quelle che perfino gli altri avvocati d’ufficio rifiutano, lui le assume. Un Untermensch.

Ed entriamo subito nello spaccato della tragedia italiana, proprio come nell’Iliade: solo che nel Poema trovi all’inizio ― e non per caso ― l’elenco dei partecipanti, le stirpi, le armi e gli eroi. Qui, nel film, trovi invece il catalogo delle nefandezze umane, l’elenco dei sui clientes. Il catalogo è proprio ciò che crea il mondo, non va preso come una mera lista.

Il Catalogo è il mondo, è il nostro riferimento, ciò con cui ci confrontiamo. Per gli stupidi è la lista. Per gli imbecilli abissali è l’elenco del telefono. Ma per noi è invece la vita. De Angelis quindi ce lo fa presentare subito dal protagonista: Perez. alias Luca Zingaretti. E lo sfondo è quello di una Napoli reale, priva di sole, irriconoscibile per le fiumane di turisti, ma assolutamente reale: fra giudici, avvocaticchi di bassa lega, articoli del codice citati per numero con clausole annesse. Procedure vuote, disastri umani reali. E quelle Torri da Centro Direzionale brianzolo, eppure edificate a Napoli. Un obbrobrio che simboleggia una altro obbrobrio. Mezzo e messaggio si confondono, nella metafora.

Bene. Ora ci vuole l’alter, l’avversario.

La storia punta dapprima sul “compagno” di viaggio, lo sguaiato e miserabile avvocato Merolla. Orribile e caustico. A tutta prima sembra lui l’antagonista, ed invece no. Il focus si sposta sul ragazzo della figlia, un guappetto camorrista, Corvino, che pare tutto sommato un bravo ragazzo. Omen nomen.  Sua figlia Thea (il nome, manco a dirlo, lo ha scelto proprio Perez., non suona abbastanza archetipale?) lo adora, ne è talmente pazza da trattare lui, il padre, Perez., come un cencio, una pezza da piedi, di fronte a tutti. Umiliato. Silente e umiliato. Abbozza. Untermesch, vero Italiano medio.

Ma non ci siamo ancora. Finalmente il focus raggiunge il suo target predefinito, l’antagonista vero, il Villain. Ed è il capo-camorra, il superboss. Non va Perez dal Boss, al contrario: è il Boss che lo sceglie, lo assume, lo include, lo avvolge, fa’ il cenno di stritolarlo solo per farlo sentire una pedina nelle sue mani, per farlo sentire il niente che è ― o che lui suppone che sia.

Il Boss si chiama Buglione (non Goffredo-di, ma forse il bullion, l’oro purissimo marcato, il 24 carati). Al “centoepercento”. La sua parola vale oro. I suoi ragionamenti, valgono oro. Non sono tecnicamente “pensieri”, quelli di Buglione. Ma ragionamenti. Lui non è intelligente, ma scaltro. Non è colto, ma attento a non commettere l’errore che lo trascinerebbe via inevitabilmente all’altro mondo.

E soprattutto, Buglione non mente. Vedi dove va a finire l’etica, nel mondo alla rovescia. I cattivi sono persone tutte d’un pezzo, quasi le ammiri, quasi ti stanno simpatiche. Perché i normali, le persone che dovrebbero essere per bene, o quasi per bene, mentono tutti. Nessuno che dica la verità, nessuno che si dica la verità: non vi è posto per il coraggio. La verità è insopportabile per le mezze tacche. Prova ne sia che il suo amico, l’avvocato Me-rol-la, appena entra in contatto con la verità prima sviene, e poi si suicida.

Buglione ragiona di fino, sceglie Perez come suo avvocato, perché inguaiato, perché ricattabile, perché lo tiene per le palle. Perché ha fallito. Perché ha perso l’etica, come tutta l’Italia, l’intero Paese smarrito negli Eldoradi delle politiche, dei talk-show, dei finanziamenti europei che vanno nel vuoto e ingrassano i soliti saprofiti che valgono nulla, nel turbine del malaffare ammantato, ricoperto di impeccabili procedure comunitarie insensate. Così diventano tutti ricattabili da tutti. Ma non i Pupari, non Buglione, che è l’Aner, il Vir, l’Uomo.

E si può concedere il lusso della verità.

Scolpitelo nella pietra del vostro animo. La verità è un lusso, e lo sarà sempre di più. Ma mentire è sub-umano. Rompe il legame fra la parola e l’azione, la parola e la vita. Altera definitivamente la relazione fra l’uomo e l’uomo, reclama un vantaggio che si tramuta sempre, inevitabilmente, in una disfatta. Mentire è empio, trasforma la propria parola in nulla. Laddove il bene supremo è proprio dare la propria parola, e che questa valga oro: Bullion.

La storia potrebbe essere finita qui, ma la trama del film è di quelli forti, ed accade l’imprevisto. Perez.– lo  sconfitto, Perez. ― il punto a capo, il nulla, l’uomo senza qualità, l’avvocato delle cause perse, vale a dire il prototipo dell’italiano medio che ha perso la Itaca dei propri sogni e si trova spaesato e naufrago in un mare che non è più l’Egeo, pur essendo l’Egeo. Lui, a zonzo dopo essere stato cacciato di casa dalla figlia che, guappa anche lei a parole, ignara e presuntuosa, fa la voce grossa con il padre e lo caccia di casa, incappa inusitatamente in due balordi.

Buglione dice di aver offerto a Perez. la grande occasione della sua vita per riscattarsi, per diventare ricco e potente, avendogli confidato l’ubicazione del suo tesoro personale di diamanti nascosti nel “ventre di vacca” di un improbabile (Mino)tauro ― nell’ancor più improbabile azienda agricola retta da un Indiano costretto sulla sedia a rotelle. Con la parola d’ordine della sua sempre improbabile malattia infantile, Buglione lega l’Indiano al suo Messaggero, a Perez. Per cui, a colui che gli dirà “Katu Barada Niktor”, prego fornire i gioielli per 80 milioni.

Ed invece la grande occasione di Perez. è tutt’altra. La vera, Grande Occasione che cambia Perez. e lo abilita a ritornare l’Eroe che era, arriva sotto forma di rapina. I due balordi: dammi portafoglio e cellulare! E lui: no. L’altro spazientito estrae la pistola, e Perez. chiede di essere ucciso. Atterrato, segnato, trascina la pistola sulla fronte e reclama la fine. Chiede di morire, di levarsi da una vita così, chiede di cedere il banco. Ma non ottiene la sua dipartita, anzi: le altre due mezze tacche, da buffoni quali sono tutti i minacciatori italioti, cedono e scappano.

Perez. voleva morire, ed in qualche modo ci riesce. Non nella realtà, ma nella irrealtà. Doveva morire a quella vita, ed in qualche modo è come se fosse morto, è stato ucciso per rinascere Eroe. Per farsi attraversare dall’energia che il Rinsavimento comporta.

Tecnicamente, e seguendo per un attimo uno dei grandissimi pensatori contemporanei (mi si conceda, altrimenti che scrivo a fare?) Perez. è stato “dentro” la sua morte. E l’essere per la (sua) morte gli ha dischiuso gli occhi sulla sua esistenza. Non ancora sulla sua vita, ma sul suo esistere e sul suo comportarsi così come stava facendo. La morte incontrata dona perspicacia, dona lucidità. Dona la forza, non ancora l’etica, ma la forza quella sì. La forza che porta l’eroe sotto le mura di Troia a reclamarne la distruzione.

Sulla scorta di Heidegger ― quindi ― a Perez diventa tutto chiaro: come recuperare il tesoro, come trattare il guappo Corvino, come liberarsi di lui e dell’ormai ingombrante Centopercento. Farlo, è solo una conseguenza, un problema di tempi, di spazi e di azioni. Ma non di idee, di progetto, di energia: quelli sono chiarissimi.

Ora, tutto questo comporta il passaggio attraverso la legge, quella che lui nemmeno tentava di difendere da avvocaticchio. Passa attraverso lo sradicamento di vite altrui, ma per salvarne altre, per ritrovare il nucleo originario. Passa attraverso il crimine, perpetrato con lucidità, per fare giustizia e ritrovare un equilibrio nella Situazione.

E questo Perez. lo fa. Lo deve fare. Sciaguratamente, lui che non è ancora un Aner, lo fa per bloccare la sua caduta, non già per riconquistarsi la purezza. Quello non lo sa ancora fare. Ma si è levato di dosso il passato. Ha perso la fede nel suo passato. Anche Thea, che vive la discesa del padre, il disvelamento di Corvino, la disillusione: anche lei perde la fede, ed entrambi le lasciano sul tavolino del bar dove approdano e si acquietano al termine degli eventi.

Pronti per ripartire verso la nuova storia della loro esistenza.

Una chiusura ideale.

Noi, gregge di tacchini italioti, turaccioli nella risacca di una storia che ci vedrà inevitabilmente succubi di chissà quali bui orizzonti, dovremmo sfilarci le nostre fedi (o Vere) al più presto possibile, troncando il teatrino che ci opprime, quello che fa di Napoli (o qualunque altra città d’Italia) un luogo di inferno, fra tribunali, crimine, droga e malaffare. Quello che ci fa votare chi sappiamo derubarci a piè sospinto, quello che ci fa accettare di essere un popolo di naufraghi mentali, noi nel Canale di Sicilia al posto dei cosiddetti Profughi Migranti ― che vorrebbero il nostro posto sulla Terraferma.

Solo che, per farlo, dovremmo avere coraggio. E per avere coraggio, dovremmo incontrare quella stessa illuminazione, quella Luce di Heidegger che fu anche dei Padri Fondatori Costituenti, che con la Resistenza conobbero la morte del Fascismo per rifondare uno Stato democratico. Quello Stato xgw ai va a schiantare contro le onnipresenti Torri Brianzole.

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One thought on “Il mio nome è Perez. (con il Punto)

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