di Fabrizio FuntòAltri vi racconteranno meglio di me il film The Idol, per il suo valore cinematografico.

Spero che vi dicano che la costruzione della sceneggiatura, la “fabula”, il montaggio, i tempi e la struttura narrativa sono tutti al posto giusto. Perfino i flash back sono esatti e arrivano al millimetro. E’ un film occidentale coi contro-fiocchi, anche se le immagini che scorrono sono piene di quell’assurdo calvario, di quella landa desolata e distrutta chiamata Gaza.

Lascio il posto ad altri più titolati di me per la critica.

Io vorrei limitarmi ad un’unica centrale considerazione — come al solito — “filmosofica”.

Un concorso a premi per cantanti in erba, distribuito in franchising nelle televisioni di tutto il mondo, non è proprio il vertice della cultura e dell’arte. Irretisce platee di famigliole piccolo-borghesi, asserragliate su divani Ikea nelle gruviere delle periferie cementificate — e speranzose di far “sfondare” la propria prole nello “star system”.

E’ il mondo dei talent scout, dove il talento non si capisce bene in cosa consista. Insomma, roba di provincia, buono per le commesse del parrucchiere (sono volutamente stereotipico, per non lasciare nulla al caso). La televisione ne è piena. In genere vi si vedono fenomeni da baraccone.

Non seguo questi spettacoli: li trovo sguaiati e osceni. Ma, qui e ora, questo dato non è così importate.

Poi c’è Gaza, che è un assurdo, un anacoluto, una fascia di terreno odiata da tutti, e per primo da chi vi è recluso al proprio interno. Uno scenario raccapricciante, al limite dell’umana sopravvivenza. Se pensate all’inferno, state sfogliando il libro delle fotografie di Gaza. Le persone sono distrutte ed erose internamente da una vita allo stato brutale. Assurda. Un Paese in guerra permanete, perfino contro se stesso. E dove il futuro è annichilito.

Ma è lì che — per iniziativa, ostinata tenacia, pervicacia di sua sorella — Mohammed scopre il proprio talento, insieme ad un gruppo di ragazzini esaltati per la musica. Ha una voce formidabile, una modulazione da applauso scrosciante. Incanta perfino il doganiere che dovrebbe invece arrestarlo.    

Una voce che è un lasciapassare.  

Ora, finché Mohammed non comprende il valore emblematico del proprio talento, e come ogni eroe che si si rispetti non intraprende il Viaggio che lo deve portare ad ottenere il Premio finale (con finti amici che gli si rivelano nemici, e con il solutore che gli si palesa quando tutto sembra perduto) — i due eventi restano separati. Né potrebbero mai incrociarsi per dare vita alla perla miracolosa conservata nella conchiglia.

Ma l’eroe si decide, rompe gli indugi e scende in campo. Assume su di sé il proprio destino, e si rimette in ciclo con la ruota del tempo.

Mohammed passa la frontiera, lascia Gaza e si dirige dritto dritto al Cairo, per partecipare ad “Arab Idol”, il concorso, come avevano fantasticato tante volte nei loro sogni di bambini indomiti. Inizia il torneo infinito delle selezioni e delle eliminatorie per giungere alla serata finale.

Unico cantante proveniente dall’inferno, dalla Palestina della Striscia: Mohammed. Fino a quel momento a Gaza i duri, gli eroi, usavano i Kalashnikov, l’RPG, i razzi, per le loro imprese. Non l’ugola. Loro sono figli di Gaza, ma anche Mohammed è “ibn Gaza”, un figlio di quella striscia di storia.

Già. E allora da Gaza, con televisori da fare invidia a un salotto milanese, parabole e antenne sono sintonizzate sullo spettacolo che manda in visibilio le famigliole del mondo arabo. E, sciaguratamente, del mondo intero, mutatis mutandis. Solo che questa volta per i reclusi, uno di loro ha deciso di creare il corto circuito e far sentire la voce della speranza di un intero popolo.

E così la guerra si ferma. I trasporti bellici, le jeep, i container posteggiano al bar, dove c’è un televisore sempre acceso, e partecipano alla disfida.

La guerra è diventata assurda, per loro e per noi che guardiamo dal mondo del privilegio: non ricordi neanche più contro chi si combatte. Ma tutti si rimettono alla decisione dei giurati. Il notiziario non parla più di morti, e di trattative: gli unici “accordi” sono quelli che servono ad accompagnare la splendida voce di un Mohammed in corsa per la finalissima.

L’intera comunità trova una unica voce che parla per lei. Come non è mai successo prima. E tutti insieme trattengono il respiro quando giunge il momento cruciale, quello che precede la proclamazione.

Incredibilmente, per la prima volta nella sua Storia, Gaza può vincere “qualcosa”. Per la prima volta se la batte ad armi pari nel confronto con il resto del mondo. In una risibile trasmissione televisiva che però, per il fatto di essere vista da decine, forse centinaia di milioni di persone, diventa uno specchio dei tempi.

Arab Idol è il loro Mediterraneo sul piccolo schermo, dove si fatica a stare a galla. E’ la loro frontiera vissuta sulla parabola, dove ci si combatte a colpi di acuti e quarti di tono. E dove Mohammed è Gaza.

Forse in questo film accade qualcosa di raro per il grande schermo, qualcosa che era riuscito solo al grande cinema d’autore: perché il contesto è qui quasi più importante del percorso. Penso a Barry Lyndon. E’ il contesto che rende unica e paradossalmente eclatante una storia che invece appartiene alla sottocultura televisiva commerciale.

Potenza dell’emblema.

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