Quinzaine – Il film d’orrore, nell’accezione più vasta del termine, celebra quest’anno la sua presenza alla Quinzaine con due opere provenienti dall’America Latina: Somos lo que hay del messicano Jorge Michael Grau e La casa Muda dell’uruguaiano Gustavo Hernández. Diversi, tanto nel loro approccio estetico, quanto nella scelta dei loro soggetti, i due film che si sono promessi di fare tremare il pubblico di paura, hanno suscitato reazioni contrastanti.

Giocando con l’ibrido e il miscuglio dei generi Jorge Michael Grau mette in scena una famiglia di cannibali per denunciare lo stato di decomposizione della società messicana.  Somos lo que hay costituisce un’ulteriore prova della vitalità del cinema messicano e di un’istituzione, il Centro de Capacitaciòn Cinematografica – la scuola di cinema di Città del Messico – che ha formato negli ultimi anni una giovane leva di registi pieni di talento e di creatività. Due opere prime, fra le più interessanti viste in questi ultimi anni nel circuito dei festival: La famiglia Tortuga di Rubén Imaz Castro e Intimidades de Shekespeare y Victor Hugo di Yulene Olaizola,  realizzate da studenti del CCC. La scuola ha creato recentemente un concorso di sceneggiatura che permette al vincitore di beneficiare di una struttura di produzione professionale: Somos lo que hay è stato finanziato grazie a quest’iniziativa. Presentando il film al pubblico della Quinzaine, il regista ha detto che per lui Somos lo que hay  è una sorta di specchio teso alla società messicana. Ricorrendo all’impiego di una metafora forte ed estrema come quella del cannibalismo il regista ha affermato di volere scioccare e scuotere la coscienza dei suoi concittadini. La pellicola riflette in effetti una visione assai truce del Messico, quella di un mondo violento, spietato e indifferente, dominato dalla corruzione, il cui tessuto sociale si sta disfacendo a tutti i livelli mettendo in forse il suo nucleo essenziale, la famiglia. Nella prima sequenza del film un uomo di mezza età erra in un centro commerciale e muore improvvisamente sputando una saliva viscida e nera. L’autopsia rivelerà la presenza di un dito umano nel suo stomaco. La morte dell’uomo, patriarca di una famiglia di cannibali, precipita i superstiti nella disperazione. La moglie e i tre figli dovranno ormai cercare da soli il loro cibo. Come fare per procurarsi la carne umana di cui hanno bisogno? Chi prederà in mano le redini della famiglia? La scomparsa del padre getta lo scompiglio anche nell’ordine e nella gerarchia del gruppo: secondo le regole del clan il dovere di andare a “caccia” spetta al figlio maggiore, ma Alfredo, il primogenito, un ragazzo timido e dolce, reputa questo compito troppo gravoso e vorrebbe volentieri rinunciarvi. Non sembra però avere altra scelta: spinto dalla sorella minore, energica e determinata e dalla madre, isterica e famelica, è costretto ad addossarsi questa  missione. Il ritratto di questa famiglia – fatta eccezione per le abitudini alimentari – non differisce in fondo da quello di una qualsiasi famiglia in crisi. All’interno del nucleo famigliare si delineano alleanze e giochi di potere: la madre vuole essere rispettata e sostiene di potere provvedere al sostentamento dei suoi, il figlio maggiore è restio ad accettare il suo nuovo ruolo di leader, il figlio minore è impulsivo e violento, mentre il vero motore del gruppo è la sorella minore, ambiziosa e crudele. La ricerca del “cibo” dà luogo ad un insieme di avventure rocambolesche che spaziano dal burlesco, al gore e mischiano vari generi dal poliziesco – una serie di detective sono sulle orme della famiglia assassina – al film di vampiri – i volti dei protagonisti impallidiscono a vista d’occhio man mano che le ore passano senza avere trovato nutrimento. Strane regole sociali e morali sembrano indirizzare le scelte dei cannibali: le prostitute – preda prediletta del defunto padre – e i bambini sono tabù, altre categorie umane, invece, non creano nessun problema: la madre riesce ad adescare un taxista, Alfredo finisce per sedurre e portarsi a casa un giovane omosessuale. Il film si conclude con un apocalittico bagno di sangue: i poliziotti si sparano a vicenda e sparano ai membri della famiglia che, nel frattempo, si stanno dilaniando tra di loro, ma alla fine qualcuno sopravvive: è, evidentemente, il più forte. La ragazza, cannibale sanguinario dal volto angelico, è semplicemente ferita e ben presto riesce a fuggire dall’ospedale. Nell’ultima scena del film la vediamo aspettare ad una fermata d’autobus, candidamente vestita con la sua camicia da paziente: un leggero sorriso sulle sue labbra ci indica che ha già avvistato la sua prossima vittima.  Già l’anno scorso la famiglia come teatro di un mondo al rovescio, di una realtà distorta e perversa aveva costituito il soggetto di uno dei film più straordinari del Festival di Cannes: Kynodontas di Giorgos Lanthimos. Però là dove Lanthimos era riuscito a creare una sceneggiatura molto compatta, con un reale sviluppo, una tensione costante e una serie di personaggi delineati con precisione assoluta, Jorge Michel Grau disegna un mondo dai contorni vaghi e nei meandri del miscuglio dei generi si perde la forza del suo discorso di fondo. L’abbondanza del materiale nuoce alla coerenza dell’insieme e i caratteri dei personaggi, tratteggiati in modo sommario, si riducono a delle figure senza rilievo. Nonostante ciò il regista messicano ha saputo costruire un suo universo dotato di un’atmosfera assai peculiare: melodramma famigliare, horror, saga sociale intrisa di elementi comici e film poliziesco si fondono qui in una maniera spigliata e completamente inedita. Jorge Michel Grau dimostra, inoltre, di avere un ottimo occhio per l’allestimento scenografico: in perfetta corrispondenza con la tristezza ed il grigiore della loro esistenza, l’interno della casa della famiglia-cannibale è dominato da tinte dimesse e sembra un magazzino di vecchie cose dimenticate, un’enorme quantità di orologi di epoche e tipi diversi tappezza i muri, il resto dello spazio è occupato da scatole di scarpe, accatastate le une sulle altre, forse vuote. Nulla lascia presagire gli orribili riti che vi si celebrano. Le scorribande dei protagonisti alla ricerca delle loro vittime permettono inoltre al regista di mostrarci tutti gli spazi dove vige la miseria urbana: ponti e incroci di autostrade che servono da riparo ad orde di bambini di strada, sordidi locali notturni, quartieri malfamati dove regna la prostituzione. Su questo sfondo desolato si staglia il volto triste e disperato del protagonista, costretto, suo malgrado, ad uccidere il suo prossimo per sopravvivere. La mestizia e la rassegnazione con cui il giovane attore, Francisco Barreiro, interpreta il ruolo di Alfredo, cannibale reticente, &
egrave; forse uno dei tratti più belli del film.

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