di Maria Giovanna Vagenas/ Safari, l’ultima produzione del documentarista austriaco Ulrich Seidl, presentato al 19esimo Thessaloniki Documentary Film Festival nella sezione dedicata al medio ambiente, ci propone un nuovo viaggio nell’universo creativo di un artista tanto geniale, quanto controverso.

Da più di tre decenni Ulrich Seidl scruta con una precisione agghiacciante e con un rigore assoluto quanto si nasconde nelle pieghe recondite dell’anima umana e nel sottosuolo dell’esistenza, in senso metaforico e letterale.

Nelle sue mani la cinepresa diventa lo scalpello di un chirurgo, che incide dove si cela la scurrilità, il vizio o la depravazione di cui sono fatte, quasi inconsciamente, le vite di molti.

La sua vasta opera costituisce un vero e proprio di museo delle mostruose stravaganze del nostro quotidiano.

Seidl si serve di un approccio alla volta distaccato e marcato da un formalismo molto specifico che è  il suo marchio di fabbrica.

Figura d’eccellenza di questo formalismo è il ricorso frequente nei suoi film ad una sorta di composizione fotografico-pittorica con cui il regista osserva i suoi protagonisti nell’immobilità di una presa, più o meno lunga, con l’obbiettivo fisso, braccato su di loro, come se fossero dei tableau vivants.

Spesso si tratta di ritratti di singoli personaggi ma non mancano le vere e proprie foto di famiglia meticolosamente messe in scena con un gusto spiccato per la simmetria, per i motivi decorativi e per il contrasto tematico all’interno del quadro stesso.

Con Safari Seidl ci propone un viaggio profondamente inquietante in Namibia, nel cuore della savana, in una riserva di caccia, dove gli animali che sono presi nel mirino dei turisti-cacciatori europei appartengono in parte a delle specie protette ed in via di  estinzione.

Ontologicamente parlando, l’universo del film è composto da tre categorie di esseri: i cacciatori occidentali, gli animali-preda e la servitù di colore.

Safari è costruito su un’alternanza di piani girati all’esterno – le battute di caccia- e di piani girati all’interno della tenuta, dove i cacciatori prendono la parola e danno libero corso ai loro pensieri. Da notare che solo i cacciatori hanno diritto di parola nel film.

Con fredda maestria Seidl lascia emergere i caratteri e le motivazioni, i propositi e gli stati d’animo dei protagonisti di quest’esperienza talmente irreale, nella sua cruda e insensata violenza, da sembrare una pièce di teatro.

Particolarmente sconcertante è il resoconto offertoci dai quattro membri della stessa famiglia- Gerald e Eva, i genitori e Manuel e Tina, i figli ventenni- venuti tutti insieme per vivere e condividere la loro passione per il safari.

Nella locuzione quasi monocorde di questi cacciatori la passione sembra sotto controllo, freddamente contenuta; il tono è pacato, dimesso, quasi clinico.

I due ragazzi discutono serenamente scambiando idee ed opinioni, come se parlassero di musica o degli ultimi film visti,  sulle loro armi preferite o su quali siano i fucili migliori per uccidere determinate categorie di animali e raccontano estasiati la sensazione estrema che provano quando la loro adrenalina s’impenna mentre stanno sparare all’animale che hanno nel mirino.

Il silenzio domina l’ambiente sonoro del film; non ci sono rumori di fondo, non c’è musica, non si sentono schiamazzi, le voci dei personaggi emergono da una sorta di vuoto torpore.

Ogni gesto, ogni oggetto occupa un posto ben preciso, come i trofei degli animali uccisi e appesi, con assoluta simmetria, sui muri della tenuta.

Anche le battute di caccia seguono un rituale ben preciso, che si ripete identico di volta in volta. La battuta si fa nel silenzio più assoluto, di solito il cacciatore vero e proprio è assistito da una seconda persona che trasporta il puntello per il fucile, spesso si tratta di un impiegato della riserva che ha il compito di portare i cacciatori nei luoghi dove possono trovare facilmente degli animali da abbattere.

Una volta preso di mira il bersaglio e colpito, non si sa se l’animale sia stato mortalmente ferito o no – spesso i colpi vengono sparati da una distanza enorme- occorre aspettare per vedere  cosa è successo e solo dopo, in un secondo tempo, si può partire alla ricerca del corpo. Ogni volta bisogna tenersi lontani e dare all’animale il tempo di morire.

In tutto questo processo “l’etica” del cacciatore gioca un ruolo cruciale; ne va della  capacità o abilità nel tirare un unico colpo, netto e letale, di modo che l’animale soffra il meno possibile.

“Heil al cacciatore!” Esulta, quasi sottovoce, il marito della cacciatrice che ha appena abbattuto una preda eccezionale.

Ma chi osserva non può fare a meno di chiedersi: a cosa si riduce tutto ciò? All’adrenalina che sale nel momento di sparare? Alla foto-ricordo con l’animale appena ucciso? Al trofeo appeso sulla parete?

Seidl costruisce il suo racconto su un crescendo continuo. Safari inizia infatti con le battute di caccia degli animali più conosciuti e, per cosi dire, meno prestigiosi, per passare poi a quelli più ricercati ed imponenti. Dall’uccisione dello stambecco si passa a quella del  buffalo poi a quella della zebra per concludere in apoteosi con lo sparo letale su una giraffa.

E’ la madre, Eva, delicata ma determinata, che spara sull’animale maestoso colpendolo al cuore. L’agonia è lunga e penosa; ormai in ginocchio, la giraffa tenta invano, più volte di alzare il capo, issando senza forza il lungo collo, per lasciarlo poi cadere inerte al suolo, in quella che è, senza dubbio, una delle scene più strazianti del film.

Una volta uccisi, i cadaveri degli animali vengono sottoposti a una serie di operazioni che si svolgono tutte nel mattatoio della tenuta, lontano dagli occhi dei ricchi cacciatori occidentali. In questo spazio, nella penombra, entra in scena la servitù locale. Uomini e donne di colore s’incaricano di squartare gli animali, separando la carne- che verrà mangiata- dalla pelle che servirà da trofeo.

La cinepresa di Seidl riprende, con lucida meticolosità, l’ultimo atto di questo dramma insensato, mentre la pelle di una zebra viene accuratamente sciacquata, il suo sangue, rosso vivo, scorre a fiotti sul pavimento.

Come epilogo Seidl ci presenta, elegantemente seduto in una lussuosa poltrona, Volker Neeman, il padrone della tenuta, in una boriosa requisitoria finale.

Perché dovrei giustificarmi? Non c’è nessuna legge che vieti di uccidere degli animali” sostiene l’uomo. “Il problema non è il numero degli animali che diminuisce ma piuttosto quello degli uomini che aumenta, che aumenta troppo!”

Le conseguenze logiche di un tale pensiero appaiono, in questo contesto, spaventosamente palesi.

Seidl punta il dito sul malessere di fondo della società, nei paesi benestanti dell’Europa occidentale,  ne mostra le pecche, le tare, la decadenza.

Tuttavia sia la scelta dei soggetti che il modo in cui Saild li tratta, ritraendo senza schermi e  senza rete di salvataggio, almeno a prima vista,  i suoi personaggi, possono sollevare la questione seguente: dove finisce il moralismo e dove inizia la compiacenza del voyerismo?

Di fatto i documentari di Seidl si basano tutti su una premessa, su una sorta di patto non scritto fra chi filma e chi è filmato ed è solo per questo che, in linea di principio, sono possibili: chi vi compare si sente nel giusto, non pensa di dire, di  fare qualcosa di riprovevole, indegno, o di sbagliato, al contrario, è pienamente convinto,  se non  addirittura fiero, del suo modo di vivere, delle sue scelte, dei suoi hobby, dei suoi gusti e delle sue idee.

La cinepresa di Seidl occupa spesso il posto dell’interlocutore anche se il corpo e la voce del regista restano sempre invisibili. L’impressione che ne deriva è quella di un tête-à-tête con i personaggi che ci guardano in faccia e con cui – virtualmente almeno- condividiamo uno stesso spazio.

Saild ci porta in posti che non avremmo mai sognato di visitare, e dove forse non avremmo neanche voluto mettere piede, senza permetterci mai di restare completamente al sicuro perché la sua macchina da presa ci include nella scena, nello spazio vitale dei personaggi, creando una sensazione di leggera claustrofobia.

Ci mette di fronte a uno specchio e c’invita a scoprire quanto di tutto ciò che senza indugio cataloghiamo come abietto ci tocca sul vivo e forse, in un certo senso, riguarda pure noi.  Adesso lo spettacolo può veramente cominciare.

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