Apprezzando Gustav Klimt non potevo esimermi dall’informarmi sulla particolare storia, seppur un tantino romanzata, che prelude il viaggio transoceanico delritratto di Adele Bloch Bauer,circa sessant’anni dopo la sottrazione dell’opera ai veri padroni. Stiamo parlando di facoltose famiglie ebraiche radicate, in questo caso, in una Vienna in procinto di essere invasa dal nazismo, dove scorgiamo, tra le quinte, un pittore che sembra subire il fascino della donna che le ha commissionato il profilo – come si conviene, d’altro canto, ad ogni ritrattista che si rispetti. Ma la ricca signora ebrea mostra già l’espressione di un forte disagio interiore, lo stesso malessere che avrebbe, di lì a poco, travolto tutti come una marea nera…

La memoria dell’olocausto non svanisce e, lo sappiamo bene, è argomento abbondantemente sfruttato da ogni forma d’arte che si rispetti, e pur apprezzando l’interpretazione seducente della protagonista principale, una Helen Mirren in gran forma che abbiamo già avuto modo di ammirare in The Queen di Stephen Frears, la ricostruzione dei fatti, ben ricollocati negli scorci storici di una Vienna nazista e anche moderna e di un’America attuale e rassicurante, ripercorre strade e sottolinea fatti fin troppo conosciuti.

Probabilmente sarà sempre più difficile, con il trascorrere del tempo, comunicare alle generazioni che verranno la violenza cieca contro la razza ebraica –e la fine della fede nella ragione e nell’”umano”-, ma bisogna riconoscere come, fino ad oggi, ci sia stato un forte impegno affinché l’oggetto non cadesse nell’oblio. Sto divagando, ma a conti fatti pur scoprendo come lo splendido ritratto della donna sia stato strappato alla Österreichische Galerie Belvedere di Vienna per ritornare agli originari proprietari, nel film si parla principalmente di ingiustizia ottemperata, in ogni sua forma, a scapito degli ebrei. Prepotenza su vite violentemente estirpate, certo, ma affrontando anche il tema, spesso sottovalutato, dei beni economici carpiti. E perciò raccontando la storia di come il ritratto dellaWoman in gold, per dirla con le parole del titolo, sia stato restituito, il film non manca di darrisalto anche alla restituzione dei moltissimi beni requisiti durante la persecuzione.

Il giovane, inesperto, squattrinato ed imbranato avvocato, ben interpretato da Ryan Reynolds, appare all’inizio sbigottito, ma acquista forza nel trovarsi di fronte alle vicende e ai luoghi, sfogliando gli strati del caso da risolvere, eventi che lo coinvolgono man mano, avendo comuni radici. Con un lavoro di diversi anni, insomma, uno dei dipinti più famosi di Klimt non resterà più a Vienna ma seguirà l’ultima proprietaria – Maria Altmann, residente negli Stati Uniti, la nipote di Bloch Bauer, fuggita per non morire – prima che il dipinto venga acquistato da Ronald Lauder, figlio della famosa Lauder della casa cosmetica e riesposto nellaNeue Galerie di New York di Lauder stesso -come Maria, in fondo, aveva desiderato.

Tuttavia torno a divagare, e forse per rimandare il momento del sempre penoso “verdetto”: il film infatti non convince. Ennesimo messaggio subliminale – racconto la storia ma ti mostro ancora quello che abbiamo subito – ci ricorda principalmente la strage ebraica, il male fatto che mai dovrà tornare incitandoci a non dimenticare il razzismo. Ma si punta troppo su questi oramai indiscutibili assiomi, e anche se nessuno vuole sminuirli non si può non notare come al dunque stoni parecchio continuare a sottolineare (e spesso vittimisticamente) i torti subiti se poi lo stesso popolo non manca di riproporli oggi ad un altro popolo. Non si può non pensare ai territori palestinesi invasi dallo stato ebraico da ormai troppi anni, ai finanziamenti del movimento sionista, ai giovani palestinesi uccisi che sfidano i soldati e sono definiti terroristi, non essendo altro che ribelli ad un’aggressione e ad un’usurpazione inaccettabile –proprio come non si rassegnarono mai i partigiani europei nelle nazioni che vennero sottomesse dal nazismo. Né, a maggior ragione, se il tutto avviene sotto l’egida di una religione.

E’ con questo risvolto amaro che Curtis non mi è piaciuto.

Al di là della straordinaria Mirren, di cui bisogna rimarcare la bravura – senza dimenticare la sorprendente ma breve presenza di Elisabeth Mc Govern, moglie del regista e invecchiata naturalmente!–, e nonostante il fatto che, almeno narrativamente, a una prima occhiata il film possa non fare una piega, continuo invece a pensare come il messaggio “di fondo” si collochi su temi e toni molto discutibili, mascherando dietro un esercizio tradizionale di retorica una (quantomeno) profonda incoerenza storica e umana.

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