Lunedì 28 novembre 2011 all’età di ottantotto anni se n’è andato il Padre del documentario italiano, Vittorio De Seta. Viveva da molto tempo in Calabria, a Sellia Marina, in provincia di Catanzaro, la terra di sua madre e quella a cui dedicò tre opere: I dimenticati (1959), In Calabria (1993) e il più recente Articolo 23 – Pentedattilo (2008). Il regista palermitano, classe ’23, è stato il cantore del nostro Sud, il primo poeta delle arti visive ad immortalare sulla celluloide le antiche vestigia del mondo contadino, destinato a soccombere dall’avanzare spregiudicato e accentratore del progresso tecnico-industriale. Mentre Antonioni, Risi, Maselli, Vancini, Zurlini ed altri ancora esploravano l’emarginazione e la povertà delle grandi metropoli postbelliche, l’autore di  Lu tempu di li pisci spata (1954) raccontava i modi e le forme di vita arcaiche dell’umanità fuori dal tempo e dalla Storia con un approccio antropologico memore della lezione di Flaherty e con un rigore espressivo di matrice ejzenstaniana.

Figlio dell’aristocrazia terriera siciliana, aveva conosciuto “il popolo” durante la guerra, nel periodo di prigionia in Austria, quando fu costretto a convivere con soldati semplici di umili origini, nei confronti dei quali ha poi dichiarato di sentirsi debitore. Abbandonati gli studi in architettura si unisce al gruppo della “Panaria Film” e inizia a frequentare gli ambienti del cinema. Nel ’53 è aiuto regista e cosceneggiatore di Jean Paul Le Chanois per Le village magique e assistente di Mario Chiari nel quarto episodio di Amori di mezzo secolo.

L’esordio nel documentario avviene poco più tardi con Pasqua in Sicilia (1954) diretto assieme a Vito Pandolfi, in una prima versione in bianco e nero e con lo speaker; un debutto troppo compromissorio che farà dire al regista: “ A rivederlo oggi mi viene la pelle d’oca perché è davvero convenzionale!”. Fu proprio l’abolizione della voce over, del commento puramente illustrativo che si identificava spesso con il punto di vista dell’autore – e che aveva caratterizzato buona parte della produzione  documentaristica precedente – la prima novità introdotta da De Seta come infrazione ai codici di genere dominanti, per dare voce e autonomia espressiva alla cultura rappresentata, nel rispetto della sua specificità. La scelta di bandire la musica di repertorio o quella per film realizzata ad hoc dai compositori di professione (come ad esempio i celebri contributi di Giovanni Fusco per Antonioni e Maselli) a favore dei canti popolari e dei suoni d’ambiente è un altro indice di divergenza  dagli schemi consolidati, in linea con  i principi etici ed estetici dell’impersonalità verghiana, orientata alla completa mimesi dell’autore nell’opera, al dissolversi dell’Io nella collettività. I sette documentari sul Sud rimangono il suo capolavoro: in essi la precisione del dato etnografico si compenetra armoniosamente con l’elaborazione poetica condotta dal mezzo cinematografico, prendendo definitivamente le distanze dal saggismo scientifico dei demartiniani.

L’esperienza maturata negli anni dedicati al documentario confluirà inevitabilmente nella successiva produzione a soggetto: la sua opera non abiurerà mai dal credo realista, anche quando affronterà il delicato tema della nevrosi ne L’uomo a metà, patologia osservata “da dentro”, compresa e vissuta in prima persona, come l’approccio alla pari con i pastori, le donne e i carabinieri di Banditi a Orgosolo, i veri sceneggiatori del film premiato a Venezia come miglior opera prima nel 1961.  L’identico spirito di compartecipazione è facilmente rintracciabile nel work in progress Diario di un maestro, progetto commissionato dalla Rai e andato in onda in quattro puntate tra il febbraio e il marzo del 1973; un film dal vivo, per certi versi anticipatore degli odierni talent show, che ha l’ambizione di proporre alcuni modelli pedagogici alternativi registrando le attività di una classe di quinta elementare in una scuola della periferia romana. L’imprinting del documentario ha poi contribuito al rafforzamento di un’idea di cinema pionieristico, rigoroso, elitario: pochi membri, anche tre o quattro soltanto, selezionati seguendo il criterio principe dell’affidabilità. Girati all’insegna dell’economia dei mezzi e delle difficili condizioni di lavoro sono anche La Sicilia rivisitata (1980), Hong Kong, città di profughi (1980) e In Calabria (1993), opere in cui l’osservazione si adagia sull’onda lunga della memoria e sulla riflessione disincantata ma priva di rassegnazione.

L’ultima fatica, maturata dopo anni di silenzio e d’isolamento, è Lettere dal Sahara (2006), che può essere considerata la summa della poetica desetiana: in essa riaffiorano con vigore le tematiche di sempre: l’identità, l’appartenenza, il rapporto con l’altro da sé. Il grande cineasta meridionale conclude la sua parabola artistica allargando gli orizzonti del “mondo perduto” oltre confine: l’Africa diventa la terra messianica in cui poter recuperare le nostre radici.

Se ti è piaciuto quello che hai letto, perché non lo condividi?
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.